Si parla solo di "transizione graduale" non di eliminazione. Per gli ambientalisti è un compromesso al ribasso
La fine della COP 28, la mega-conferenza tra tutte le nazioni ONU per scegliere come contrastare il cambiamento climatico, porta con sé qualche perplessità.
A partire dalla location, Dubai, capitale di un Paese – gli Emirati Arabi Uniti – noto per non essere particolarmente virtuoso né dal punto di vista climatico né da quello dei diritti. Anche se sotto le spoglie della modernità, è pur sempre quella metropoli nel deserto dove si può sciare nei centri commerciali e dove, proprio durante la COP, le autorità giudiziarie hanno avviato un processo per terrorismo nei confronti di oltre 80 dissidenti politici.
Non convince nemmeno il presidente della COP, Sultan Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera di stato. Ad esplicitare l’evidente conflitto di interessi ci ha pensato lui stesso dalla poltrona della presidenza, dichiarando che «l’eliminazione dei combustibili fossili significherebbe un ritorno al tempo delle caverne» e che «nessuna scienza dimostra che un'uscita dai combustibili fossili è necessaria per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi» quando in realtà si tratta proprio della principale soluzione proposta dagli esperti.
E, infine, non convince il testo finale del negoziato, né per i contenuti né per il modo in cui è stato approvato. L’accordo è un compromesso al ribasso.
Da un lato per la prima volta le parole “combustibili fossili” entrano in un accordo ONU, ma accompagnate da verbi blandi ed edulcorati. Non si dice “abbandonare” o “uscire”, e nemmeno “ridurre” o “diminuire”, ma si parla di “transizione graduale dai combustibili fossili […] in un modo semplicemente ordinato ed equo”. Tra gli strumenti per questa transizione viene indicata anche la cattura e lo stoccaggio della CO2, una tecnica oggi costosissima e poco sviluppata che prevede di rimuovere l’anidride carbonica già prodotta in atmosfera.
Una foglia di fico dietro cui i Paesi produttori di petrolio potrebbero nascondersi per continuare ad estrarre.
Il testo non dà poi nessun peso alle differenze tra Stati ricchi e poveri. Questi ultimi chiedevano un approccio differenziato, che imponesse ai Paesi poveri e ai Paesi ricchi, questi ultimi inquinatori da decenni e con capacità tecniche ed economiche elevate, gli stessi obiettivi.
L’intero testo dell’accordo è stato approvato, a sorpresa, nell’arco di pochi minuti.
Alle COP si decide per consenso, una sorta di silenzio-assenso in cui in mancanza di opposizioni esplicite il testo passa. Il già citato Al Jaber ha scelto di forzare la mano, non lasciando lo spazio e il tempo alle opposizioni di intervenire e considerando il testo approvato. Questo ha scatenato la durissima reazione della rappresentante di Samoa, una delle piccole isole pacifiche destinata a scomparire a causa dell’innalzamento nel livello del mare, che ha accusato Al Jaber di aver fatto «come se loro non fossero nella stanza».
Alla stregua della celebre dichiarazione di Fantozzi, anche qui trenta minuti di applausi, una standing ovation corredata da fischi e urla da stadio come raramente si vede alle conferenze ONU. Standing ovation ripetuta quando una giovane attivista è salita sul palco della presidenza, cartellone in mano, gridando «salvate il nostro futuro».
Perché alla fine l'obiettivo è proprio questo, e se vogliamo realizzarlo non sarà qualche timida dichiarazione come quella partorita da questa COP 28 a permettercelo. Dichiarazione su cui, comunque, noi italiani, un po’ come al solito senza infamia e senza lode, abbiamo avuto poco peso decisionale.
Il nostro ministro dell’Ambiente Picchetto Fratin, dopo aver trascorso alcuni giorni defilato e ai margini della conferenza, non parlando inglese ed avendo poche competenze tecniche in materia, ha addirittura abbandonato il vertice prima della sua conclusione.
Insomma, con un gioco di parole vien da dire: stiamo freschi.