Ven, 22 Nov, 2024

“Dio,Patria e Famiglia”: triumvirato fascista? No, semplicemente il motto della “Bela Rusin”

“Dio,Patria e Famiglia”: triumvirato fascista? No, semplicemente il motto della “Bela Rusin”

Riportato sul pantheon torinese dove è stata per anni sepolta la moglie morganatica del Re

Chi ha l’onore e la responsabilità di scrivere di storia si sente obbligato, in Italia, ad affrontare il tema del fascismo nato con la “Marcia su Roma” in una piovosa giornata di quel triste 28 ottobre del 1922. 

Per precisione occorre dire che Benito Mussolini, che già aveva provato l’esperienza del carcere a causa di un carattere che lo portava a fare cose alquanto strane e pericolose, nelle prime ore della famosa maratona politica in camicia nera verso la capitale, non era a Roma, ma a Milano, a casa dell’amante Sarfatti, donna di origine ebraica che lo aiutò nell’ascesa al potere, pronto a scappare in Svizzera se mai gli avanguardisti ed i manipoli dannunziani fossero stati fermati con la forza, ma sia il Governo Facta, sia Vittorio Emanuele lasciarono fare, il primo forse per paura o semplice sottovalutazione, il secondo perchè un Re, in una monarchia costituzionale e non assolutista, semplicemente non può decidere, lasciando al governo l’onere e l’onore dei provvedimenti, anche se dimissionario, tanto da nominare Salandra perchè ne formasse velocemente uno per l’occasione.

Non fu possibile, perchè ormai l’Italia si trovava sull’orlo di una guerra civile, dai più annunciata. Vista la situazione,”mascellone” si precipitò quindi per le vie di
Roma ripreso dalle telecamere, questa volta accese, a capo della nera spedizione, in compagnia di De Vecchi, De Bono, Bianchi e Balbo.

marcia su roma

Sappiamo tutti come andò a finire, anche se a distanza di un secolo, gran parte degli italiani, a causa di una memoria storica sfuggente e la complicità di una classe politica che, da sempre, strumentalizza a piacimento il “ventennio fascista” non hanno trovato in cuor suo quei sentimenti di riappacificazione che ogni popolo dovrebbe coltivare per il bene dei suoi giovani, cercando di evitare i toni alti,  in cui i dibattiti politici si trasformano in beghe di bottega, ove ogni volta viene paventato il pericolo fascista o comunista che sia.

E qui mi fermo,semplicemente perchè ho promesso alla redazione che non avrei affrontato l’argomento, triturato da tempo sui giornali, in televisione, sui palcoscenici del qualunquismo e da tutti coloro che sbraitano invece di dialogare e da giornalisti\scrittori che, pur di vendere qualche copia in più o di avere più audience, accontentano la pancia del Paese, tradendo la verità storica. Ma una cosa desidero dirla, a beneficio di tutti coloro che sentendosi orfani della storia trattata a mo’ di favola, semplicemente perche’ mai vissuta, nè materialmente nè tanto meno rivisitata sui libri, si alternano a raccontare balle (mi scuso di non saper
l’inglese, altrimenti avrei chiamato le medesime, con il più politicamente corretto “fake news”, tanto caro ai benpensanti di questo strano Paese, che appunto pensano anglosassone solo perchè è di moda ), come quella di addebitare al fascismo tre "terribili" parole che, secondo alcuni, sono il marchio di fabbrica dello
squadrismo fascista, reo di aver inventato il motto “Dio, Patria e Famiglia”.

giorgia meloni

In tutta la Nazione, in particolare dopo l’elezione di Giorgia Meloni a Presidente del Consiglio, che come attributi pare ben fornita, quindi un motivo in più per essere chiamata “Il Presidente del Consiglio”, invece del più laconico “Presidentessa”, si è scatenata una guerra mediatica tra i politicamente corretti della lingua italiana, nel momento in cui tre valori del nostro Risorgimento sono venuti a galla in una discussione in cui la destra, intesa come fronte politico, li ha riesumati dal loro antico torpore, come simboli da seguire in una società civile in cui molti principi legati alla storia di questa povera Italietta, avevano da tempo smarrito la strada ed occorrerebbe quindi una scossa morale per poter affontare al meglio le sfide future, affidandosi proprio al motto "Dio, Patria e Famiglia".

Cosa che ha scatenato il finimondo: orrore puro della dialettica falsodemocratica, improvvida rinascita di un simbolo fascista, tipo "Credere, Obbedire, Combattere", invenzione della becera propaganda del Minculpop, ritorno alle origini della dittatura più oscura, reminescenze destroidi legate ad una pura invenzione dell’epoca del ventennio, segregazione dialettica in cui si rafforzano i temi antidemocratici della politica reazionaria ecc.

Vorrei tranquillizzare tutti coloro, che nel tempo si sono cimentati nella gara di chi per primo riusciva a certificare la natalità di questa frase, ed in particolare tutti gli intellettuali, che come diceva il mio bisnonno «pensano tanto, lavorano poco, ma in compenso procurano molti guai a chi li mantiene», che si sono buttati a capofitto nella mischia di un anacronistico “Rischiatutto” o “Paroliere”.

A cominciare dal popolare Bruno Vespa, che affronta il drammatico problema e viene tirato in ballo in merito ad una sua dissertazione letteraria, nel momento in cui una scapigliata ed improvvida esponente politica - sì proprio quella che nella sua tenuta in campagna aveva trovato nella cuccia del cane migliaia di euro,dimenticati da quache bassotto in calore - si presentò nel marzo del 2019 ai giornalisti con in mano un cartello in cui la biondina, dopo aver scritto la terribile frase “Dio, Patria e Famiglia", apostrofò la medesima, vergando di suo pugno «Che vita di m…da».
Il buon Bruno, che scrive molto e forse per questo legge poco, attribuì la triade di parole al gerarca fascista Giovanni Giurati, che avrebbe coniato tale frase fascistissima nel 1931, tanto che lo scrive nel suo libro “C’eravamo tanto amati”, dimenticando che nella rivista di propaganda del Duce “Gioventù Fascista”, la dizione corretta era “Dio e Patria. Ogni altro affetto, ogni altro dovere vien dopo": mirabile esempio di miracolo oratorio nazionalcattolico derivante dai Patti Lateranensi tra il buon Benito ed il cardinal Gasparri nel 1929.

A mettere sale sulla ferita aperta della triade accusata di essere un emblema fascistoide, ci pensa la bella e brava, e per questo invisa a molte femministe, direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, alla quale piace la frase incriminata perchè’ richiama antichi valori. Tanto basta per accendere la miccia mediatica in tutta Italia: pazzesco!

Pare infatti fosse la frase con cui Mazzini volle riassumere il suo concetto politico basandosi sui valori che di lì a poco sarebbero stati le fondamenta motivanti le gesta risorgimentali in cui gli italiani si identificarono nello sforzo comune nella costruzione dell’Italia unita: anche qui avrei molti dubbi, perchè ammesso e non concesso che il concetto vero fosse quello incriminato, Mazzini scrisse nel suo manifesto politico\sociale, noto come “Doveri dell’uomo”, una frase riassuntiva, quindi non una triade dialettica compiuta, che in sintesi parlava dei doveri dell’uomo, dove dal cuore vien dettato «...delle cose più sante che noi conosciamo, di Dio, dell’Umanità, della Patria, della Famiglia», che però dobbiamo riconoscere molto vicino al sentimento della frase di sole tre parole giunta a noi.

storia cartoline fascismo 1

Che il fascismo abbia abusato e violentato i simboli risorgimentali è un fatto provato, basta guardare le cartoline di propaganda emesse dopo l’8 settembre 1943, dove spicca un vecchio garibaldino, seduto con la testa fra le mani che si sente tradito. Per non citare le frasi dello stesso Mazzini, evidenziate assieme alla figura dell’eroe dei due mondi che tanto piaceva per la sua abilità nel motivare i soldati. Non mi risulta, inoltre, che il carbonaro genovese abbia mai messo su
famiglia, troppo impegnato a costruire una repubblica con l’aiuto della monarchia sabauda che odiava, ma era costretto ad usare, con buona pace della citata sua “umanità ”.

Inutile dire che in tempi non sospetti, tale frase fu slogan anche dei partiti legati alla Democrazia Cristiana, tanto che alcuni soggetti della cultura nostrana, attribuiscono la frase addirittura a De Gasperi. No comment.

Ma tranquilli tutti! C’e’ una novità che smonta tutte queste tesi e che, se non fosse più che secolare, dovrebbe se non risolvere, dare un significato più umano alla frase incriminata e non riguarda certo il fascismo.

vittorio emanuele bela rosin

Se vi capita di entrare nella sede della Biblioteca Civica Torinese in strada Mirafiori, a Torino, dopo aver visitato sulla destra l’esposizione di testi a disposizione del pubblico, percorrete la strada lastricata in pietra che conduce direttamente a quella che fu la tomba di Rosa Vercellana, più conosciuta come la “Bela Rusin”, ove sul cornicione che sovrasta il peristilio di questo piccolo pantheon torinese, troverete accanto all’arme della famiglia dei conti di Mirafiori e Fontanafredda, rappresentanti una torre - in onore dell’antica residenza di “Miraflores”, eretta precedentemente su quei terreni da Carlo Emanuele I detto “Testa di fuoco”, alla fine del 1500 e dedicata alla consorte Caterina Michela d’Asburgo, figlia del Re di Spagna Filippo II - ed una fontana, simbolo della tenuta vitivinicola di Fontanafredda
nelle Langhe, la scritta "Dio, Patria e Famiglia".

storia iscrizione bela rosin

La tomba venne costruita dai figli della Rosa avuti con Vittorio Emanuele II, ovvero Vittoria marchesa di Spinola ed Emanuele conte di Mirafiori, come azione di protesta contro la famiglia Savoia, quando alla morte della Vercellana nel 1885, negò la sepoltura al Pantheon di Roma accanto al marito ,Re d’Italia: nessun problema,  il pantheon se lo costruirono i figli a Torino e fino al 1972 la “Bela Rusin” riposò in questo luogo per poi venire tumulata definitivamente al Cimitero Monumentale di Torino a causa di ripetuti furti ed atti vandalici che interessarono l’intero complesso funerario ormai in abbandono.

Dopo un importante restauro, dal 2005 il sito è diventato una sede del circuito delle Librerie Civiche Torinesi, luogo di eventi, mostre, presentazioni e spettacoli teatrali, che trovano in questi spazi recuperati alla memoria, un incantevole luogo di conoscenza e cultura a favore di tutti.

Rosa e Vittorio Emanuele si incontrarono per la prima volta a Racconigi nel 1847, lei quattordicenne, lui ventisettenne già sposato con la cugina Maria Adelaide d’Asburgo, dalla quale avrà cinque figli: Maria Pia, Maria Adelaide, Umberto, Amedeo ed Oddone Duca di Monferrato, morto a Genova all’età di 20 anni dopo una breve vita passata tra tormenti fisici derivanti da una forma di nanismo che gli impediva di camminare, ma che non lo frenò verso lo studio .

I due figli naturali del Re e della Rosina furono battezzati con il cognome Guerrieri per poi essere riconosciuti da Vittorio Emanuele ed autorizzati ad ereditare i titoli della madre che, dopo la morte della regina di Sardegna Maria Adelaide, trascorse la parentesi torinese con Vittorio Emanuele nelle residenze di Borgo Castello della Mandria di Venaria Reale, alternata a lunghi soggiorni nel castello di Sommariva Perno all’entrata delle Langhe arrivando da Torino, nonchè brevi periodi a Valcasotto, altra residenza di campagna. Si trasferì quindi a Firenze accompagnando il Re durante il trasferimento della capitale d’Italia nel 1865 e quindi Roma nel 1871, ma ebbe sempre cura di non interferire pubblicamente nelle cerimonie ufficiali che il primo sovrano del Paese unito era chiamato nei suoi doveri, preferendo questi la compagnia della nipote Margherita che preparava in questo modo la sua entrata nel gotha aristocratico delle grandi dinastie europee, e ad essere la prima vera Regina d’Italia.

Rosa sposò’ morganaticamente Vittorio Emanuele II nel 1869 in un momento critico per il neo marito che assieme al al rito nuziale si vide benedire la fronte con l’olio santo perchè considerato in punto di morte dai medici, a causa di una polmonite contratta durante una battuta di caccia,. Ovviamente si salvò, a detta del morituro, grazie ad una cura di bicchierini di vino Porto invecchiato che lo rigenerò, quindi i due si sposarono anni dopo a Roma nel 1877 con rito civile  e dopo due
mesi Vittorio Emanuele morì. Era l’8 gennaio 1878.

La primogenita Vittoria sposò il marchese di Spinola, ufficiale sabaudo di 20 anni più anziano, di ricca e nobile famiglia genovese. Gli Spinola potevano vantare una carrellata di avi che avevano lasciato traccia del loro operato militare ed economico in tutta Europa:. Alla morte del marito, Vittoria sposò il fratello del
defunto e, quando questi spirò, si sposò una terza volta abitando abitualmente in Firenze, accudendo la madre che morì nella sua casa nel 1885.
Vittoria morì nel 1905.

Il secondogenito, Emanuele conte di Mirafiori,  fu invece il soldato più giovane, con i suoi 15 anni, a partecipare alla terza guerra di indipendenza nel 1866.
Era nato a Moncalieri nel 1851 e fu il fondatore della grande cantina di produzione della tenuta agricola Fontanafredda a Serralunga d’Alba, dopo aver studiato enologia in Francia ed aver appreso dai migliori esperti di vini dell’epoca, le tecniche di coltivazione e produzione dei vini rossi francesi, che applicò con
successo nella sua azienda nella produzione del barolo. Morì nel 1894: al figlio Gastone spettò dunque la direzione delle cantine che ebbero un momento di grave crisi economica negli anni '20 del 1900.

Rosa, Vittorio Emanuele, Vittoria ed Emanuele non raggiunsero i 60 anni di vita ma, se pur breve, la loro esistenza fu un complesso e straordinario insieme di emozioni e sincero affetto,intriso di amore nella relazione genitori che seppero svolgere con il massimo rispetto i ruoli che il destino aveva loro assegnato: forse il motto "DIO ,PATRIA E FAMIGLIA", che sicuramente non era di invenzione fascista, ma proveniva da sentimenti che nascevano in molti cuori dell’epoca, aveva trovato la giusta collocazione nel Pantheon di Torino, rispettando sia la volontà di far partecipe la popolazione del motto di famiglia dei conti di Mirafiori, sia per ricordare a tutti che la vita, per essere utile alle future generazioni, ha spesso bisogno di motti e simboli che nessuna critica può ledere perchè insiti nell’animo di ognuno di noi nel ricordo del passato.

castello sommariva perno

Stia serena signora Monica, le garantisco che se potesse dialogare con la parigenere Rosa, che riposò nel suo Pantheon dal 1888 con la scritta tanto fascistizzata oggi, mentre allora fu apposta dall’architetto Demezzi perchè rappresentava semplicemente motto e simbolo della famiglia, le direbbe che la sua vita non è stata di m….,come lei teorizza, e di sicuro ha sempre vissuto al fianco del suo uomo, per lei un semplice marito, mai un passo indietro, ma sempre un passo davanti nel privato, come quella volta a Sommariva Perno quando nel piccolo studiolo dove Vittorio Emanuele e Cavour stavano scrivendo a due mani il famoso discorso del “Grido di dolore” che avrebbe acceso gli animi alla Camera ed indotto il Parlamento subalpino ad avviare il progetto di riunificazione, ad un certo punto la Rosina urlò dalla finestra della cucina un perentorio “lase’ l’Italia an mument e mangè gli agnulot che sfreidu”: e’ forse questa una donna condannata a stare dietro ad un uomo? Una donna che nel privato sapeva stare davanti a monumenti viventi, della serie, se qualcuno pensa che i grandi eventi siano stati concordati nelle grandi dimore, fatevene una ragione, l’Italia è stata unita di fronte ad un piatto di agnolotti ed una scodella di bagna cauda, in una sperduto
palazzotto sulle colline del vecchio Piemonte, con i due segugi del Re - i cani Milord e Lisa - accanto al tavolo in attesa di un boccone prima di andare a dormire nella loro regal tana: sì, perche’ all’epoca, a Torino come a Capalbio, nelle cucce la gente per bene metteva i cani a dormire, non era ancora in uso il metodo repubblicano di ammucchiare i danari nelle alcove canine ,e se mai capitava, gli artefici di tali atti avevano almeno il pudore di rimanere silenti nella loro
esistenza un po’ vergognosa ,un passo indietro a tutti, cani compresi.

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