Ha orgini nel mondo dei lavandai la prima comunità mappanese
La storia delle origini di una parte della prima comunità mappanese, bisogna andare a cercarla in riva al Po, tra fine Ottocento ed inizi Novecento, e successivamente nell’area conosciuta come la Barca e Bertolla, porzione di terreno ai margini di San Mauro, Torino e Settimo. Area attraversata ancora oggi da canali, bealere, fontane sorgive e naturalmente il grande fiume la fa da padrone, distribuendo capricciosamente piene ed alluvioni, ma fornendo anche l’elemento naturale per la sopravvivenza dei suoi abitanti: l’acqua.
Torino ed i suoi fiumi
I legami che ha avuto il capoluogo piemontese con i corsi d’acqua che lo attraversano: Stura, Dora e naturalmente il fiume Po, rappresentano da sempre una delle risorse fondamentali per la nascita ed il suo sviluppo. Fin dai primi insediamenti abitativi, arrivando alle soglie della rivoluzione industriale.
In questo millenario rapporto fra l’acqua e l’uomo, Torino ed i torinesi, hanno sempre avuto un legame ambivalente con i propri fiumi. Percepiti da un lato come fonte di pericolo, a causa delle numerose e frequenti inondazioni, che devastavano coltivazioni e case, ma anche come vicina e preziosa risorsa idrica, inesauribile e dalle molteplici funzioni.
Nonostante l’antica “Julia Augusta Taurinorum”, nel suo impianto urbanistico originario, distava sensibilmente dal fiume Po, nei secoli e nei millenni successivi, tutte quelle aree, che separavano il centro urbano, tra il fiume e quella che noi oggi conosciamo come piazza Castello, furono progressivamente caratterizzate dalla presenza dell’uomo, fino alla realizzazione degli isolati di via Po, la successiva esedra, e la sontuosa piazza Vittorio Emanuele che degrada appunto, quasi fino alle sponde del fiume.
Già nel 1600 si ha notizia della presenza stabile lungo le sue sponde di pescatori, barcaioli, mulini natanti che sfruttavano la forza idrica generata dal passaggio dell’acqua, e nel secolo successivo di renaioli, cioè cavatori di ghiaia, sabbia ed appunta rena, estratta dal fondale del fiume, materiale prezioso, utilizzato nei tanti cantieri che stavano cambiando il volto della città.
Un mondo che viveva ai margini della capitale sabauda
Spesso però in osmosi con essa. Un rapporto durato almeno fino all’800, ed interrotto solo con la nascita dei Murazzi. Opera che serviva sì a contenere le piene disastrose del fiume, ma che in qualche modo chiudeva per sempre quel rapporto permeabile, quasi un diaframma, fra i torinesi e le sponde del loro corso d’acqua più importante: il Po.
Fino ad allora fu un microcosmo di abitazioni sorte lungo le sue sponde, spesso malsane e fatiscenti, letteralmente addossate al fiume, in cui vivevano in condizioni igieniche molto precarie, numerose famiglie.
Come lo si più osservare da alcune paesaggi dipinti dal Bellotto. Lo stesso Borgo Moschino, poi demolito, evocava fin dal nome, l’insolubrità del luogo, caratterizzato da mosche e zanzare, fitti canneti che prosperavano nei terreni paludosi a ridosso del fiume. Luogo ideale per dare rifugio a ladri, mendicanti, i celebri Barabba, che spesso non erano altro che uomini e donne, spesso adolescenti, dalle condizioni sociali ed economiche meno fortunate rispetto ad altri. Gli stessi che ebbe poi modo di incontrare don Bosco all’origine del suo Oratorio.
Eppure in questi luoghi per oltre un secolo, si sviluppò una fiorente attività oggi dimenticata: lavanderie a conduzione famigliare, i cui filari di bucato steso, caratterizzavano non solo il paesaggio del Moschino, ma la zona adiacente alla Gran Madre, giù giù fino a corso Moncalieri e la futura piazza Zara.
Un mondo dove non esisteva ancora la corrente elettrica e l’acqua in casa era un privilegio raro
Nacque così questa attività, a ridosso della città, sfruttando la presenza del fiume. Il ceto medio torinese, ma la stessa borghesia, utilizzava questo servizio, poi ampliato a favore osterie, le locande, arrivando, in un secondo momento ad occuparsi di ospedali e alberghi cittadini.
Gli abitanti di questi borghi fluviali si riunivano ogni 25 di luglio con la festa dedicata a San Giacomo Pescatore, che culminava con una suggestiva processione di barche che risalivano il fiume, pronte a rinnovare l’antico legame con questo corso d’acqua. Una festa sì religiosa, ma dall’antico sapore “pagano”, che scomparve quando questo microcosmo fluviale, cedette il passo alla progressiva urbanizzazione delle aree limitrofe alle sue sponde.
Era un contesto sociale eterogeneo, che percepiva il fiume quasi come un organismo vivente: con le sue regole e le sue leggi non scritte. Fino a quando questo mondo scomparve. Cancellato dall’edificazione di nuovi quartieri, certamente più salubri, che portarono però all’abbattimento dei borghi preesistenti.
Soprattutto con la costruzione dei Murazzi, un’opera che metteva finalmente in sicurezza le sponde del fiume, ed al riparo i suoi abitanti da rovinose inondazioni, ma annullava per sempre quel sottile diaframma, fra un centro urbano ormai in espansione, e le sponde del suo fiume principale.
Con la successiva distruzione del Borgo del Moschino, la nascita dei Murazzi, la realizzazione di nuovi quartieri lungo corso Moncalieri, che sottraevano sempre più spazi e terreni a ridosso del Po, ma soprattutto per una serie di ordinanze comunali volte ad impedire lo sciorinare dei panni e l’asciugatura del bucato, per motivi di decoro, non solo lungo le aree adiacenti al Po, ma in tutte le vie cittadine, costrinse molte di queste famiglie di lavandai ad una silenziosa ma inesorabile migrazione.
Il decreto comunale del 1935, che vietava, per motivi di decoro urbano, lo “sciorinare dei panni lungo i rii e nelle vie cittadine” e quindi anche sulle sponde del fiume, costrinse gli ultimi lavandai ad una lenta ma progressiva migrazione verso le realtà periferiche di Barca e Bertolla. Migrazione che era già iniziata a partire dal 1860, quando sempre il Comune di Torino, approvò il Regolamento per gli stabilimenti insalubri incomodi e pericolosi, che causò l’allontanamento dei lavandai dalla città, ma soprattutto dalle sponde dei suoi fiumi.
Appena nove anni dopo, nel 1869, nella regione Bertolla, si ha già notizia di una Lega dei Lavandai
Ovvero una Associazione dei Lavandai, contadini ed operai di Bertoulla Torinese, per mutuo soccorso e istruzione, che arrivò a contare 226 soci nel 1885.
In realtà questa “Lega” non era una associazione professionale. Tanto meno una società operaia di mutuo soccorso. Era una specie di cooperativa, il cui scopo principale consisteva nel produrre e distribuire ai suoi soci, a prezzi convenienti, il detersivo detto “La Fènice”: un composto di soda caustica, soda solvay ed oglina, una sorta di detersivo ante litteram, usato efficacemente da tutti i lavandai.
Un’altra organizzazione simile, nata però a Mappano, fra i suoi principi statutari, avrà anche il compito di stilare un dettagliato prezziario, da applicare per il lavoro eseguito, che andava da 0,50 centesimi a capo, per le camicie da uomo bianche, prezzo che saliva a 0,70 se di lana. Il lavaggio delle tovaglie grandi poteva arrivare fino ad una lira e venticinque centesimi, mentre lavare mutande in lana da ragazza, costava 0,40 centesimi, che saliva a 0,50 se erano mutande da donna. Molti i capi in elenco: dai fazzoletti, agli accappatoi, tovaglie, ai bavaglini, corpetti per uomo, donna e bambino, passando alle coperte di una, due piazze, piquet, catalogne, fodere per sofà, seggioloni, seggiole, grembiuli, colletti per uomo, donna, ragazzo, copribusti e sopracolli, giacche da bambino e uomo, ridò grandi e piccoli, calzoni, mantili, arrivando fino alle sottovesti per donna (combineusea), oggi in gran parte scomparse dall’abbigliamento femminile.
L’elenco nomenclativo degli oggetti da lavare, stampato su di un opuscolo, distribuito nel 1920, ai membri della “Società Augusta Lavandai di Mappano”, si concludeva con un chiaro monito, per evitare la corsa ad abbassare i prezzi fra lavandai: “Il socio a partire dal 15 febbraio 1920, avrà lo stretto dovere di attenersi scrupolosamente per la lavatura della biancheria ai prezzi stabiliti dalla seguente tariffa”.
Naturalmente le condizioni necessarie per poter continuare a svolgere questo lavoro erano essenzialmente due: la vicinanza alla città, dato che ci si spostava con carri particolari trainati da cavalli o muli, e la presenza naturalmente di acqua. La scelta cadde su un’area a nord di Torino, lambita dal fiume Po, ed attraversata da canali, rii e bialere per l’irrigazione dei campi. Questa zona era conosciuta come “Barca” e “Bertolla”. il primo sicuramente legato agli attraversamenti fluviali, il secondo ai cognomi tipici dei proprietari di alcuni fondi rustici della zona: Bertaina e Bertola.
La vita delle lavanderie a gestione famigliare di Barca e Bertolla, era scandita da precisi ritmi ed impegni quotidiani che iniziavano il lunedì mattina
Il quel giorno i carri dei lavandai, partivano in direzione dei diversi quartieri torinesi, anche i più lontani, restituendo la biancheria pulita e prendendo in consegna quella da lavare. Portata a casa la biancheria sporca, il giorno dopo, il martedì, iniziava il paziente lavoro di cernita e selezione, di solito affidato ai più giovani, se non addirittura ai bambini: ogni capo veniva separato, a seconda della sua tipologia: le lenzuola da un parte, le federe dall’altra, i capi di cotone divisi dalla lana, gli asciugamani, i fazzoletti, le tovaglie, infine i capi colorati, separati dai bianchi. Ogni singolo capo era contrassegnato con un filo colorato, o da una sigla, che lo riconduceva al proprietario. «Ij lavandé» non lavavano solo per privati. Ma anche per ristoranti, alberghi, barbieri, e nel gergo dialettale del tempo, i clienti venivano chiamati le“poste”. Più “poste” si avevano, maggiore era il profitto, ma anche il lavoro.
Ogni “posta” aveva, sulla biancheria data a lavare, la sua particolare marcatura che poteva essere: una croce, due denti (due fili in verticale), la «filsëtta» cioè tre punti uno dietro l'altro, «’l pession» cioè quattro punti uno dietro l'altro e cosi via. Fatta accuratamente la cernita dei capi, si passava all’ammollo, ed era mercoledì. Giornata interamente dedicata al lavaggio vero e proprio, tramite la fènice. Operazione femminile, che iniziava sempre non prima delle tre o le quattro del mattino, sistemando la biancheria nei tinelli, vasche dalla capacità di un metro cubo, costituite da due elementi la “caodera” (caldaia) e nella parte inferiore una tampetta, cioè una vasca adibita a raccogliere lo scolo del lavaggio. Quando l’acqua arrivava allo stato di ebollizione, si aggiungeva nella caldaia il detersivo conosciuto come la fènice che, mescolandosi nei tinelli, iniziava il lavaggio della biancheria. Era una operazione che si poteva ripetere anche 12-14 volte. Fino a quando l’acqua di scolo, non risultava limpida, come quella versata nella caldaia. Conclusa questa prima parte, la biancheria, veniva portata al lavatoio, normalmente collocato nel canale di derivazione di una bealera, quasi sempre a forma di pozzo, dove si procedeva per il lavaggio a mano ed il risciacquo. Operazione che poteva durare diverse ore. Sia in estate che in inverno.
Nelle stagioni più rigide comportava la spaccatura a mano della superficie ghiacciata dell’acqua. Concluso il ciclo di lavaggio, il bucato, posto su particolari carriole, veniva steso sui prati, con appositi stenditoi, in lunghi filari, chiamati in piemontese i “vir”. Naturalmente in caso di maltempo occorreva essere pronti a raccogliere tutti i panni, come prestare uguale attenzione, ad eventuali ladri di biancheria, che non mancavano. Le giornate di venerdì e sabato erano normalmente dedicate alla stenditura dei panni, che doveva essere notevole, poiché è ancora nel ricordo di molti torinesi, che da Superga, e in genere dalla collina tutta, potevano osservare l’insolito spettacolo suscitato da ampie distese bianche, punteggiate da interminabili filari di bucato appeso, che caratterizzavano questa porzione della pianura subalpina. Il lunedì si ricominciava, consegnando cioè “andè a rendi” la biancheria pulita, solitamente ordinata e stirata, se richiesto, quindi legata con dei nastri, dentro appositi sacchi.
Agli inizi del Novecento la regione Bertolla contava circa 5000 abitanti, non tutti lavandai, perché circa quattro quinti della popolazione erano composti da agricoltori e più ancora di operai. La categoria dei lavandai era costituita da circa duecento famiglie: un migliaio di persone che si tramandavano questo mestiere.
Difficilmente i giovani contraevano matrimoni fuori del loro ambiente. I capi di famiglia ultrasettantenni, erano veri e propri patriarchi: Vincenzo Martinengo, Antonio Bertinetti, Domenico Bongiovanni, forti e robusti malgrado il logorio fisico del lungo lavoro, non certo regolato dalla prescrizione delle otto ore.
Famiglie di lavandai, dai più piccoli agli adulti, che hanno lavato i panni a generazioni di torinesi. La loro attività era semplice, ma fondamentale per le esigenze di una popolazione, in larga parte, ancora priva dell’acqua corrente in casa. Lavoro che si basava grazie all’acqua di fiume e sulla lisciva, la “lessia”. Sostanza ricavata dalla cenere, ed usata poi per il bucato.
Nei primi anni del secolo scorso, vennero censite almeno 200 famiglie di lavandai con circa un migliaio di persone, fra giovani e adulti, che si occupano a tempo pieno di questa attività
Che non conosceva pause, salvo il riposo domenicale. Solo il boom economico degli anni Sessanta, che introdusse nelle famiglie torinesi e non solo, la lavatrice ed altri elettrodomestici, fino allora sconosciuti, segnò la fine del mondo dei lavandai di Barca e Bertolla, e nel frattempo dell’enclave mappanese, nato a sua volta da una migrazione novecentesca da questi borghi.
Molte lavanderie artigianali a conduzione famigliare chiusero. Altre invece, legate sempre alle ormai storiche famiglie di lavandai, originarie di questi luoghi, come i Peirone, i Necco, i Gilardi, gli Scarafiotti fecero il grande salto: trasformando a livello industriale l’attività dei loro avi. Imprese che ancora oggi danno lavoro a centinaia di dipendenti, con fatturato annuo di milioni di euro. Alla cui guida si sono succeduti i discendenti di quei primi lavandai mappanesi.
Imprese che hanno subito i contraccolpi dell’epidemia da Covid, soprattutto per quello che riguarda i comparti del settore alberghiero e ricettivo, ma che sono pronte a riprendere lo storico cammino iniziato più di cento anni fa.
Fotografie tratte da “Mille Saluti da Torino. Edizioni Capricorno”, rivista “Torino Storia” e dagli archivi privati delle famiglie Martinengo, Ferrando e Goia, di cui si ringrazia per la disponibilità e collaborazione.