L'ultimo discendente in linea diretta del capostipite Umberto Biancamano
Martedì 11 maggio presso la Reale Palazzina di Caccia di Stupinigi, si è svolta l’inaugurazione di una rassegna espositiva di documenti, testi, tra i quali anche una copia originale del Codice Napoleonico, manoscritti, regie patenti, editti e manifesti regi, accompagnati da alcune curiosità, come il primo catalogo del Museo Egizio di Torino ed i capitoli d’appalto del ponte Mosca di Torino, dal titolo “Alle radici del Risorgimento, due fratelli sul Trono di Sardegna” a cura del Coordinamento Sabaudo e Fondazione Ordine Mauriziano.
Un racconto attraverso un percorso documentale
I due personaggi di Casa Savoia qui menzionati, vengono raccontati attraverso un percorso documentale che si snoda dalla fine dell’occupazione francese di Torino del 1814 alla morte dell’ultimo diretto discendente di Umberto Biancamano, ovvero Carlo Felice, avvenuta il 27 aprile del 1831: a prendere le redini del Regno piemontese, quel Carlo Alberto del ramo secondario dei Carignano, più sopportato che amato dalla vecchia classe aristocratica conservatrice, a causa delle sue simpatie per quelle idee di libertà ed eguaglianza che il vento della Rivoluzione Francese aveva portato anche nella penisola italiana e che lui aveva già fatte sue durante la sua permanenza ed e la conseguente educazione giovanile ricevuta in Francia .
Figli di Vittorio Amedeo III, che dovette cedere con il trattato di Cherasco di fatto il Piemonte a Napoleone dopo alcune gravi sconfitte militari, e fratelli di Carlo Emanuele IV, che ricevette per primo il compito di guidare il Regno di Sardegna nei difficili anni in cui i francesi prendevano possesso dei possedimenti sabaudi, dovettero affrontare e superare periodi drammatici, fatti di piccoli e grandi problemi, trasferendo la capitale da Torino a Cagliari, privi di denari per mantenere parte della corte che si erano portati appresso, abitare in luoghi fino ad allora ignorati dai governanti piemontesi, in quanto la Sardegna era vista da tutti molto lontana dal continente, quasi un mondo nuovo ed inospitale da scoprire e quindi farsi accettare,all’epoca un atteggiamento, per chi non conosceva gli usi e costumi presenti nell’isola, comprensibile, essendo questi completamente diversi da quelli subalpini e quindi totalmente sconosciuti ai nuovi arrivati.
L'ascesa al trono di Vittorio Emanuele I
Vittorio Emanuele I sale al trono nel 1802, dopo che il fratello Carlo Emanuele IV abdica in suo favore, malgrado i dissidi tra i due siano molto forti a causa della debolezza di quest’ultimo, dimostratosi troppo remissivo nei confronti di Napoleone, in particolare dopo la firma di una alleanza con l’nvasore, non potendo militarmente competere con lo strapotere bellico francese. La famiglia Reale sabauda già a Cagliari dal 1797, guidata da un debole e malaticcio monarca (morirà cieco ed in preda a convulsioni epilettiche sempre più gravi nell’ottobre del 1819, dopo aver abbracciato la restaurazione della Compagnia di Gesù e vivendo come noviziato gesuita fino alla fine) non impedisce a Vittorio Emanuele di rientrare a Torino per tentare una resistenza, ma è costretto a ritornare in fretta nel capoluogo sardo.
Farà ritorno a Torino solo nel 1814,dopo che le ripetute sconfitte di Napoleone in Europa, avevano permesso alle vecchie monarchie di riprendere il loro posto ed in particolare le loro abitudini antiche, tanto che questo particolare momento storico viene definito “Restaurazione”.
Il Codice detto Napoleonico introdotto in Piemonte dal 1804 viene abolito ed al suo posto vengono riesumate le antiche leggi ed i regolamenti che fino alla data del 1796 erano vigenti sul territorio.
Accanto a queste però, Vittorio Emanuele I ebbe la capacità di affrontare in modo molto intelligente, da vero innovatore, le istanze legislative che gran parte della popolazione si attendeva,in quanto molti articoli del codice civile dei francesi, sui quali bisogna dire, si basano i codici odierni delle democrazie più evolute, avevano fatto breccia in quei comparti sociali dove da secoli, parole come diritto ed eguaglianza si erano ignorate ed ora non si poteva più attendere.
Le riforme di Vittorio Emanuele I
Riordinò la pubblica amministrazione ed i codici di procedura penale, le pene capitali non erano più seguite dai macabri rituali di smembramento dei corpi dei giustiziati per esporrre i poveri resti ai quattro punti cardinali delle città, furono abolite molte pene corporali compresa la tortura, alcuni di questi provvedimenti furono poi completati e migliorati dal fratello successore.
Nel 1814 viene istituita l’Arma dei Carabinieri (per inciso occorre dire che il primo carabiniere ucciso in uno scrontro a fuoco si chiamava Scapaccino ed era originario di un piccolo paesino dell’astigiano, Incisa, che oggi tutti conoscono come Incisa Scapaccino), malgrado le terribili condizioni economiche in cui versava il paese, fu il primo ad interessarsi e trattare la collezione di reperti egizi del barbaniese Bernardino Drovetti, già console dell’Impero in Egitto, avventuriero e trafficante, collezionista e diplomatico, un personaggio curioso e dalle mille risorse, che però procurò il nucleo collezionistico centrale di quello che diventerà il primo museo egizio del mondo in Torino. A concludere l’operazione sarà il fratello e successore di Vittorio Emanuele, quel Carlo Felice di cui tra poco parleremo.
Alla morte del fratello Carlo Emanuele nel 1819, gli venne riconosciuta la nomina a pretendente giacobita al trono britannico, ma non accampò nessuna pretesa in merito e fu l’ultimo Duca di Savoia ad avere questo riconoscimento.
Le riforme non tacitano i malumori della popolazione
Purtroppo le riforme avviate non bastano a tacitare i malumori che una parte importante della popolazione covava dopo che i francesi erano stati costretti a lasciare il Piemonte: l’ondata impetuosa di rinnovamento dei diritti sociali che la rivoluzione d’oltralpe aveva portato nel cuore dei territori delle antiche monarchie che ancora governavano, avevano, in particolare tra i giovani universitari, la piccola borghesia, parte della nobiltà intellettuale progressista, in seno allo stesso esercito, lasciato un segno profondo, che sarebbe culminato con i moti del 1821, iniziati a Torino, nell’università e nella cittadella catturata dai carbonari, ed in particolare ad Alessandria, dove la cittadella militare comandata dal colonnello Ansaldi, si rivoltò cercando di convincere anche la popolazione a seguire la guarnigione.
Vittorio Emanuele si trova in una situazione difficile, in quanto non sa più di chi si può fidare, tantomeno non può più contare sull’apporto di antiche ed importanti famiglie dell’aristocrazia, da sempre fedele a Casa Savoia, in particolare il Roberto d’Azeglio, Giacinto Provana di Collegno, lo stesso Carlo Alberto che, indicato come reggente in attesa dell’arrivo da Modena di Carlo Felice al quale il fratello consegna il trono, avvia invece trattative con i rivoltosi, concedendo loro la Costituzione sulla falsariga di quella spagola, attendendo il consenso dello stesso Carlo Felice: la reazione di quest’ultimo fu furibonda e dopo aver buttato a terra la missiva che informava di tale atto del giovane nipote, ordinò al medesimo di partire subito per Novara, spogliato di ogni potere ed attendere in loco nuove direttive: queste non giunsero mai, ma in compenso arrivò a Torino l’ira del nuovo monarca e le cose cambiarono subito, in particolare per coloro i quali si erano resi responsabili di aver fomentato i moti rivoluzionari.
E’ il 25 aprile del 1821 quando il nuovo Re assume il potere ancora lontano da Torino: non ama i torinesi, in quanto li giudica in gran parte collaborazionisti dei giacobini francesi, conosce poco della città, è di carattere chiuso con scatti d’ira che lo rendono subito agli occhi dei torinesi un soggetto pericoloso, introduce subito tre commissioni di inchiesta per far luce sugli avvenimenti delle cittadelle di Torino ed Alessandria, e di seguito anche quelli che videro coinvolta l’università.
Le commissioni dovranno accertare le responsabilità di militari, funzionari pubblici e soggetti che avevano collaborato con l’occupante francese, avviò rossi centri abitati, nascondendosi in piccoli villaggi di campagna in tutto il Piemonte, per sfuggire alla repressione sabauda.
Molti sindaci avevano l’obbligo di segnalare alle gendarmerie dipartimentali, i soggetti da poco arrivati nel luogo, avvertire le stesse se nelle taverne dei paesi si notavano persone che avevano l’abitudine di parlare in gruppo e sottovoce, molti individui erano spiati e la delazione gratuita contribuiva ad esacerbare un clima già di per sè ostile a tutti.
Si era arrivati al punto di far pedinare anche coloro che per motivi di lavoro oltrepassavano i confini del Regno, in particolare i commercianti del cantone di San Gallo in Svizzera, perchè si pensava portatori di idee anarchiche e liberali. Questa attività investigativa proseguì per diversi anni e si affievolì solamente dopo la scomparsa di Carlo Felice nel 1831.
La repressione di Carlo Felice
I risultati immediati tra la fine del 1821 e l’inizio del 1822, furono eclatanti: più di 600 ufficiali di truppa furono incolpati di tradimento, molte famiglie aristocratiche videro i loro componenti incarcerati, tanti funzionari vennero rimossi dalle loro funzioni, alcuni parroci rei di essere stati collaboratori dei giacobini vennero allontanati dal territorio piemontese: in totale furono comminate 71 condanne a morte, 5 ergastoli, una ventina di condanne a pene detentive superiori ai 5 anni, a queste seguirono altre 24 condanne a morte, 5 ergastoli ed altre 12 condanne detentive sempre superiori ai 5 anni promulgate dal Senato di Torino.
Carlo Felice però era anche un uomo intelligente, duro e severo ma anche onesto, un Re perfetto in tutti i sensi, se visto sotto il profilo del monarca assolutista ma giusto: alla fine le condanne capitali eseguite furono solamente due, le pene detentive ridotte od annullate, i militari di truppa, obbligati ad eseguire gli ordini imposti dai loro comandanti che avevano accompagnato la rivolta, furono dichiarati non colpevoli, insomma non un colpo di spugna ma semplicemente una azione di buon senso lontana da vendette o ritorsioni, un modo per far capire a quella parte di popolo che le istituzioni regie sono sacre e vanno rispettate, ma era un modo anche per far comprendere che il nuovo Re aveva assimilato lo stato d’animo di molti sudditi che chiedevano solo riforme, inevitabili a questo punto della storia, per evitare di ritornare ad una forma quasi medioevale di rapporti tra le classi sociali che la popolazione ormai rifiutava. Il 1848 non era poi così lontano a venire in tutta Europa.
Carlo Felice innovatore e riformatore
E da questo punto di vista Carlo Felice fu innovatore e riformatore, mecenate ed amante delle arti, difensore strenuo dell’istituzione monarchica, ma aperto a migliorare le condizioni di vita di un popolo che per quasi 20 anni aveva dovuto subire una umiliante occupazione giacobina all’ombra della ghigliottina che i francesi piazzarono accanto all’albero della libertà nell’antica piazza delle erbe di Torino.
Carlo Felice non ebbe come insegnamento la classica dottrina militare destinata ai principi ereditari in quanto ultimo a regnare di tre fratelli, non ebbe come istitutori, militari preparati ed inflessibili (il fratello che lo precedette al trono di Sardegna ebbe come insegnante privato il famoso Papacino d’Antony, esperto di artiglieria, direttore della stessa scuola della capitale assieme ad Ignazio Andrea Bozzolino) e quindi non era stato preparato a regnare, ma quando fu obbligato ad esercitare tale ruolo, lo fece in maniera impeccabile, tanto che alla sua morte, il vescovo di Annecy celebrando la funzione disse “Signori,noi oggi sotterriamo la monarchia”.
Tra le sue più importanti istituzioni, ancora oggi esistenti, ricordiamo la Cassa Di Risparmio Di Torino, la Reale Mutua Assicurazione, il completamento della trattativa per l’acquisto della collezione Drovetti che diede la luce al primo Museo Egizio al mondo, ancora oggi secondo solo a quello del Cairo, l’abolizione della schiavitù in tutto il Regno, abolì il diritto d’asilo nei luoghi sacri e riformò i trattati con lo Stato Pontificio a sua volta già secolarizzati durante il periodo napoleonico, importante fu anche la riforma del sistema giudiziario con le Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna che sintetizzava e riordinava gli antichi codici, regolarizzando anche il sistema retributivo per i magistrati a carico dello Stato.
Molte altre attività di miglioramento furono attuate, in particolare sul sistema stradale sardo ed avviando opere di recupero monumentale, in particolare nell’antico luogo di sepoltura dei conti di Savoia, vale a dire l’Abbazia di Altacomba, dove lui stesso volle essere sepolto.
Soggiornava volentieri nel castello Ducale di Agliè in Canavese oppure nel castello di Govone in provincia di Cuneo, si spense a Palazzo Chiablese in quella Torino che non aveva mai amato particolarmente, forse perchè capitale del Regno e dimora ufficiale di un Re che non pensava di diventare se non obbligato dagli eventi. Se avesse potuto scegliere tra l’essere Re ed un tranquillo signore di campagna dedito alle sue passioni artistiche, avrebbe scelto sicuramente la seconda opportunità.
Fu un uomo dedito alle arti e alla cultura
Molti storici e biografi lo descrissero come uomo dedito alle arti, alla cultura, poco propenso al dialogo, più disposto ad isolarsi, che immergersi piuttosto nella mondanità di una corte alla quale delegava molti compiti istituzionali, tanto che non pochi studiosi gli rimproverano ancora oggi di aver affidato molte sue competenze a qualche vecchio ciambellano, anche se non è stato sicuramente così.
Si sa che detrattori ed estimatori fanno parte di un mondo critico che non ha età e quindi rimandiamo ad altri i giudizi su di un uomo che durante la sua permanenza come vicerè in Sardegna durante l’esilio nell’isola della corte sabauda, non lasciò un buon ricordo nel popolo sardo, in quanto cercando di reprimere le rivolte locali e la ciminalità sarda, fu accusato di ferocia nell’uso della forza, autoritario e dispotico nel reprimere con durezza i moti rivoluzionari sardi in particolare il simbolo della rivolta, Vincenzo Sulis, poi condannato a 20 anni di carcere, e secondo il parere dello stesso vicerè, una pena assai mite. Forse da qui l’appellativo di Carlo Feroce.
Fu anche l’ultimo monarca sabaudo ad adottare sull’arme personale i vari territori del Regno raffigurati dai loro principali simboli e fu il suo successore Re Carlo Alberto a rappresentare la Casata con la classica croce bianca su sfondo rosso contornata di azzurro che fino al 1946 campeggiò al centro del tricolore italiano.