Gio, 21 Nov, 2024

La battaglia di Adua ed i comandanti piemontesi. Decretò la fine del colonialismo italiano in Africa

La battaglia di Adua ed i comandanti piemontesi. Decretò la fine del colonialismo italiano in Africa

Combattuta e persa drammaticamente il 1 marzo 1826 dal Regio Esercito

Accadeva 125 anni fa e precisamente il 1 marzo del 1896 e questa dura ed inaspettata sconfitta dell’esercito Regio, ancora oggi, è fonte di dibattiti e discussioni, sia per le scelte politiche che per le tattiche militari usate nella triste occasione.

L'acquisto della baia di Assab

L’avventura coloniale italiana in Africa nella seconda metà del 1800, inizia con l’acquisto della baia di Assab da parte della compagnia di navigazione Rubattino con denari di Vittorio Emanuele, Re d’Italia, almeno così si vociferava, facendo credere sia alla comunità internazionale che agli stessi eritrei, che  l’operazione era una speculazione commerciale ad opera di una compagnia marittima privata, e non un tentativo di occupazione da parte di uno Stato estero: erano gli anni in cui l’espansione coloniale europea era arrivata al culmine, generando attriti pericolosi tra le maggiori potenze del vecchio continente che deflagrarono anni dopo nella prima guerra mondiale.

Posta nella regione della Dancalia meridionale in prossimità della costa del Mar Rosso, era all’epoca un piccolo centro portuale, ma strategicamente molto importante  logisticamente.

La compagnia Rubattino, quando nel 1869 avvia la trattativa per acquistare la baia, versa in condizioni economiche precarie e non ha certo la liquidità necessaria per un'operazione di tale portata, ma ci pensa il governo italiano ed il suo Sovrano, come pure fecero nel 1860, quando la stessa compagnia procurò le navi (ufficialmente rubate dai garibaldini) che, partite da Quarto con mille camice rosse comandate da Garibaldi, avrebbero raggiunto Marsala in Sicilia, e che furono pagate anch’esse con soldi pubblici del Regno di Sardegna.

Nel 1882 Assab viene ufficialmente annessa all’Italia e diventa quindi la rampa di lancio dell’esercito Regio per partire verso l’interno del paese cercando di allargare i possedimenti coloniali.

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La campagna di occupazione

La campagna di occupazione va avanti a rilento ma trova terreno fertile anche per la cauta politica del Negus Menelik II che nel 1889 firma con l’italia il Trattato di Uccialli, dove di fatto viene riconosciuta dall’imperatore d’Etiopia la colonia italiana.

Lo stesso trattato fu fonte di accesi diverbi tra le nazioni firmatarie, in quanto le versioni scritte in amarico ed in italiano, differivano su alcuni punti, in particolare all’art.17, dove nella traduzione italiana l’Etiopia risultava essere a tutti gli effetti un protettorato italiano e non un semplice concordato come venne fatto credere agli etiopi all’atto della firma.

La scintilla che scatena la guerra tra i due Stati, avviene nel dicembre del 1895, quando alcuni presidi italiani vengono attaccati nella zona del Tigrè, precedentemente occupata in primavera dalle nostre truppe, e culmina con la sconfitta nella battaglia dell’Amba Alagi, dove il contingente del comandante Pietro Toselli forte di 2300 uomini tra italiani ed indigeni, viene completamente annientato dai 30.000 abissini alla cui testa si trova Ras Mekonnen. Toselli morì il giorno stesso della battaglia, il 7 dicembre, dopo essere stato l’ultimo uomo a lasciare gli avamposti difesi, dopo aver ordinato la ritirata sapendo che nessun rinforzo sarebbe arrivato in aiuto .

Crispi, a capo del Governo italiano, a questo punto ordina al comandante le forze in Africa, generale Oreste Baratieri, di affrontare al più presto e nel modo più deciso, le forze dei Ras locali, per dare un forte segnale di supremazia militare italiana e destabilizzare le ambizioni di rivincita abissine e ristabilire una credibilità internazionale da parte dell’Italia che in quel momento vacillava a causa delle sconfitte sul campo.

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La situazione si complica

Come al solito però, il grande male cronico tutto nostrano, basato su disorganizzazione ed inefficienza dell’esercito e sulle speculazioni commerciali immancabili , allora come oggi, in ambito di appalti per le forniture militari, aggravarono una situazione di per sè già molto compromessa, ed il Presidente del Consiglio siciliano, non si curò di mandare reparti di soldati preparati in aiuto ai commilitoni in Eritrea, ma si arrivò al punto di sostituire i nuovi fucili Manlicher-Carcano 91 in dotazione alle truppe regolari, con i vecchi Vetterli-Vitali, obsoleti e di vecchia tecnologia: in compenso arrivarono alcune mitragliatrici inglesi Maxim che però nessuno sapeva usare perchè mai provate in addestramento.

Fu così che, sordo alla richiesta di rinforzi adeguati perorata dai nostri generali sul campo, Crispi pensò di sostituire Baratieri con il generale Baldissera, nella speranza che questi potesse velocizzare le manovre d’attacco italiane, ma gli eventi presero una piega ancora peggiore quando nel gennaio 1896, il presidio italiano di Macallè assediato da due mesi, dovette arrendersi e costrinsero quindi l’ancora in carica Baratieri, finalmente a muovere contro i Ras locali, anche perchè la situazione interna ai villaggi delle colonie era diventata pericolosa e molti focolai di rivolta contro l’occupazione italiana erano all’ordine del giorno.

Il contingente italiano nel complessivo poteva schierare circa 18.000 uomini, comprese le truppe coloniali, con 46 cannoni Hotchkiss, ma le truppe scelte erano rappresentate solo dai reparti di alpini (al loro battesimo del fuoco) e bersaglieri, mentre il grosso della truppa era di leva e quindi senza particolare esperienza e con un addestramento approssimativo in patria prima dell’imbarco per l’Africa.

Inoltre il servizio di informazioni italiano recava al nostro quartiere generale notizie molto confuse ed errate sulle reali forze in capo all’esercito abissino, che erano valutate attorno ai 40,000 effettivi, e con armi bianche,mentre purtroppo per noi, i Ras avevano radunato circa 100.000 indigeni, parte dei quali armati con fucili, disponendo anche di un gran numero di reparti di cavalleria, che risulteranno essere decisivi per le sorti degli scontri, in quanto più veloci a manovrare e spostarsi  all’occorrenza.

Il primo e, forse,fatidico errore di Baratieri, fu quello di dividere il nostro esercito in tre colonne distanti l’una dall’altra, comandate da tre  generali piemontesi, più un quarto, il generale Ellena, comandante di una colonna di riserva.

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Ecco le loro storie  

Il generale Vittorio Emanuele Dabormida nasce a Torino il 22 novembre 1842, figlio del tenente colonnello d’artiglieria e successivamente Ministro della Guerra Conte Giuseppe Dabormida. Nel 1859 frequenta l’Accademia Militare di Torino e nel 1862 entra nello Stato Maggiore di artiglieria e partecipa alla Terza guerra per l’Indipendenza, lo stesso anno 1866, in cui passa effettivo al corpo di Stato Maggiore  e da lì, alla scuola di guerra, dove nel 1870 diventa insegnante di storia militare.

Studioso di arte militare e profondo conoscitore degli eventi bellici europei a partire dalla Rivoluzione francese, scrive e pubblica diversi testi storici. Il 30 maggio 1878 promosso maggiore, viene trasferito in fanteria e nello stesso anno pubblica uno studio relativo ad una ipotetica guerra contro la Francia, quando ancora l’alleanza con la Germania e l’Austria è lontana.  E’ utile sottolineare che il governo transalpino in quel momento storico fornisce di armi l’esercito del Negus che verranno usate contro gli italiani non solo ad Adua, ma per tutto il corso della guerra. Nel 1891 scrive uno studio dettagliato sulla battaglia dell’Assietta del 1747 nel quadro della guerra di successione austriaca, curando in particolare i ruoli delle truppe sabaude nei combattimenti in altura ed il ruolo delle milizie volontarie levate dal ministro Bogino a favore di Carlo Emanuele III.

Nel 1895 viene promosso generale di divisione e messo al comando della Brigata Cagliari ed il 12 gennaio del 1896 parte per l’Africa per affiancare il corpo di spedizione contro il Negus Menelik II. Dopo l’improvvisa decisione di Baratieri di muovere contro le truppe dei Ras locali che stavano concentrando le truppe nei dintorni di Adua, Dabormida parte alle 21,30 del 29 febbraio al comando di una delle tre colonne che dovevano marciare parallelamente verso il nemico, ma le informazioni approssimative sulle mappe del territorio che indicavano in modo errato i punti chiave delle alture da occupare, fecero sì che la colonna del Dabormida, isolata e priva di riferimenti veniva attaccata da una massa enorme di etiopici che in breve tempo spazzava via il contingente italiano di circa 3.500 uomini. Il corpo del generale Dabormida non fu mai ritrovato.

 Il generale Giuseppe Arimondi nasce a Savigliano il 26 aprile 1846. Frequenta la Regia Accademia Militare di Modena dalla quale esce con il grado di sottotenente nel 1865. Bersagliere, partecipa ad alcune missioni estere ed è fra coloro che nel 1887 si reca in Eritrea come addetto al corpo di spedizione, maturando quindi una grande esperienza di guerra sul territorio africano che culmina con la Vittoria di Agordat il 21 dicembre 1893 contro i dervisci, salvando Massaua da un possibile attacco indigeno.

Nel 1894 diventa collaboratore del Generale Baratieri di cui non condivide il modo di portare avanti le operazioni e per ben due volte chiede di essere trasferito in patria per mancanza di dialogo con il comandante supremo che considera pavido ed incapace di una seria programmazione bellica logica, ma il Presidente del Consiglio Crispi rifiuta il trasferimento per la grande popolarità che Arimondi ha nella truppa, un riconoscimento sincero che i suoi uomini hanno verso un comandante serio e deciso nelle valutazioni.

Anche Arimondi, al comando di una delle tre colonne mandate al massacro da Baratieri ad Adua, troverà la morte  sul Monte Rajo al centro dello schieramento italiano e dei suoi 2.900 uomini.

Il generale Matteo Albertone nasce ad Alessandria il 29 marzo 1840 ed è l’unico comandante di una delle tre colonne comandate dal Baratieri ad avanzare la notte del 29 febbraio 1896 contro Menelik a salvarsi: morirà infatti a Roma nel 1919.

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La sconfitta di Adua

Enda Chidane Meret sarà un nome ricordato a lungo dai superstiti della brigata al comando di Albertone, in quanto attaccata da 30.000 abissini, la piccola altura in cui gli italiani si erano trincerati, dopo un tentativo fallito della colonna di avanguardia, il battaglione Turitto, che si era spinto troppo avanti e si era dovuto ritirare, cadde dopo poche ore di battaglia, isolata come le altre posizioni tenute in precedenza da Arimondi e Dabormida. Albertone fu catturato e fu trattato bene dagli abissini ,come gran parte degli italiani, perchè di fede cristiana ma anche per il fatto che il Negus avrebbe poi chiesto un oneroso riscatto al governo italiano.

Peggior sorte trovarono gli ascari inquadrati nel contingente coloniale italiano: catturati con le armi in pugno, accusati di tradimento, venne loro amputata una mano ed un piede, condannando di fatto al disonore molti giovani soldati, tanti dei quali non sopravvissero alla punizioni, morendo dissanguati o di cancrena. Nel solo raggruppamento della colonna di Albertone, erano presenti circa 1.700 ascari coloniali.

 

Albertone, che era uscito dall’Accademia militare nel 1861,aveva partecipato alla campagna contro il brigantaggio post unitario, combattendo nella Terza Guerra di Indipendenza nel 1866 per poi trovarsi con i bersaglieri a Porta Pia nel 1870. Anch’esso, come Dabormida, insegnante di arte militare alla Scuola di Guerra ,partecipò successivamente alla campagna d’Africa a partire dal 1888.

La sconfitta di Adua determinò la fine del sogno coloniale umbertino, Crispi fu costretto alle dimissioni da Presidente del Consiglio, mentre il Generale Baratieri fu mandato davanti ai giudici della corte marziale del Regio Esercito: non fu condannato, come si pensava, ma il suo profilo di comandante venne censurato ed umiliato, non ritenendo il soggetto idoneo all’incarico avuto. Un giudizio all’italiana, come sempre, frutto di compromessi politici e ricatti istituzionali che non rende giustizia alle migliaia di caduti in una terra sconosciuta ed ostile.

I molti prigionieri italiani vennero infine liberati dopo la firma di pace avvenuta nell’ottobre del 1896 e le polemiche divamparono per anni sul ruolo e sull’atteggiamento avuto da alcuni alti ufficiali italiani catturati, che secondo certa carta stampata, in particolare francese, ebbero durante la carcerazione, un comportamento troppo accondiscendente verso i vincitori, dimostrando poco orgoglio patrio ed un attaccamento ai valori militari alquanto dubbio

Le critiche furono feroci, in particolare dopo un articolo scritto dal conte di Orleans, inviato corrispondente di guerra per un quotidiano francese, nel quale bollava di viltà gli ufficiali italiani, che lui aveva avuto modo di incontrare a pranzo con i Ras locali, ritenendo inappropriato per un soldato sconfitto, il modo di porsi di fronte al proprio nemico. Tale articolo, lesivo dell’onore militare italiano, mandò su tutte le furie il conte di Torino Vittorio Emanuele, che sfidò a duello il nobile d’Orleans.

Ma questa è un'altra storia.

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