I miti da sfatare sono ancora tanti, ma la ricerca sta lavorando in questa direzione
Anche gli animali provano dolore, e possono arrivare a morire di dolore.
E non è un modo di dire ma quello che realmente può accadere se la loro sofferenza viene sottovalutata e non viene trattata nella giusta misura. Che si parli di animali da reddito, compagnia o da esperimento, non riconoscerne la gravità può avere infatti conseguenze importanti. Per anni, ad esempio, si è pensato che gli animali non provassero dolore quanto l’uomo, che avessero una soglia algica molto più elevata, per cui servivano stimoli più intensi per provocare dolore. Tutti miti sfatati perché da un punto di vista anatomico e funzionale, in particolare se ci riferiamo ai mammiferi, il sistema nervoso nocicettivo – che veicola gli stimoli algici dalla periferia verso le strutture encefaliche – è esattamente sovrapponibile tra esseri umani e animali.
I mammiferi sono quindi assolutamente equiparati all’uomo, mentre ci sono ancora molti studi aperti sugli altri vertebrati, quali pesci, uccelli, rettili e anfibi, che cercano di dimostrare che anche tali specie posseggano le strutture anatomiche e funzionali che rendono possibile la percezione del dolore.
«C’è ancora una grossa diatriba sugli invertebrati – spiega Giorgia Della Rocca, Direttore Scientifico del Centro di Ricerca sul Dolore Animale (CeRiDA) del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Perugia – che hanno un sistema nervoso molto diverso da quello dei mammiferi, ma è abbastanza verosimile che almeno alcune specie possano provare dolore. Tra cui per ad esempio essere considerati i polpi (cefalopodi), che sono infatti stati inseriti nell’ultima versione della legge europea che tutela gli animali usati a fini scientifici»
Quello che di diverso hanno gli animali rispetto agli esseri umani è il modo di dimostrare il dolore. Oltre all’ovvia considerazione che non possono esprimerlo verbalmente (in questo sono equiparati ai bambini molto piccoli e alle persone non verbalizzanti), gli animali in genere tendono a nasconderlo. Perché da un punto di vista ancestrale mostrarlo significa far emergere anche la loro vulnerabilità: per cui chi è preda correrà più pericoli e chi è predatore rischia di perdere il predominio.
«C’è una fortissima differenza etologica specie-specifica, anche nel manifestare il dolore - aggiunge Della Rocca - Un cane o un gatto con molta probabilità mostrano più dolore di un bovino che in quanto preda tende a nasconderlo. Poi dipende anche dalla situazione e dalla razza. Tra i cani ci sono razze più stoiche, come quelli da caccia, e altre irrequiete, come i chihuahua che si lamentano più facilmente. Ma ci sono modifiche psico-motorie che il veterinario sa riconoscere per capire se un animale è in stato di sofferenza».
Proprio in base a questi segni sono state costruite delle scale del dolore, che indicano se l’animale prova dolore e quanto. Scale che sono diverse da una specie all’altra, anche a seconda del tipo di dolore. Della Rocca racconta che molti di questi strumenti diagnostici sono stati costruiti a partire dall’esperienza clinica dei veterinari e da studi clinici preesistenti.
«Ci sono tantissimi studi ancora in corso – continua – molti colleghi in particolare negli Stati Uniti, ma anche in altre parti del mondo, stanno validando scale di dolore. Va tenuto presente poi che ogni tipo di dolore ha manifestazioni differenti, perché, per esempio, un dolore viscerale non è uguale a uno ortopedico. Per questo ci sono studi volti a individuare gli indicatori che più precisamente possono misurare i diversi tipi di dolore».
Il lavoro dunque è ancora lungo e incompleto, considerando che non tutte le specie hanno scale validate proprie (soprattutto quelle di “minor interesse”) e anche per le specie più studiate – per lo più animali da compagnia – non esistono scale per ogni tipo di dolore.
«Cane e gatto sono quelle che ne hanno di più – precisa Della Rocca – per il dolore acuto e cronico; segue poi il cavallo, che ne ha un discreto numero per le manifestazioni dolorose acute di origine ortopedica e viscerale; ce n’è una validata per il bovino, per il dolore acuto. Poi ci sono le scale delle espressioni facciali per il coniglio, il ratto, il topo, il furetto, il cavallo, il gatto, il suino, con relative pubblicazioni».
La ricerca è molto attiva in questo campo anche perché non cogliere per tempo le manifestazioni dolorose e trattarle può essere molto pericoloso, sia per gli animali da affezione sia da reddito. Il rischio, come sottolinea ancora Della Rocca, è che l’animale possa addirittura morire, in caso di dolore acuto molto intenso. Quando lo stimolo algico è molto forte infatti, agisce da agente stressante che attiva una serie di risposte organiche. Come il sistema adrenergico che libera catecolamine (noradrenalina e adrenalina) e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che rilascia cortisolo. Queste sostanze attivano una serie di risposte biochimiche a cascata che impattano su sistema nervoso, cardiocircolatorio, respiratorio, digerente, urinario, sull’ equilibrio ormonale e idroelettrolitico, fino a portare a una depressione del sistema immunitario.
«La conseguenza è che l’animale può ammalarsi di più e più facilmente e può addirittura morire per aritmie cardiache per l’eccessiva attivazione del sistema cardiovascolare - commenta Della Rocca-. Si parla di un dolore intenso e invasivo, come il post operatorio, che se non controllato è una causa importante, se non addirittura di mortalità, di aumento notevole dei tempi di recupero dell’animale. Il dolore a lungo termine invece, come l’artrosico, non è così intenso, ma dura nel tempo e porta a un’alterazione anche della psiche dell’animale che diventa aggressivo, depresso. Nel caso degli animali da reddito, per cui il dolore è meno studiato e considerato, il rischio è che la sofferenza influenzi la produttività, la riduca, perché se l’animale ha dolore mangia meno, ha meno incremento ponderale, e produce meno. Oltre all’impatto psicofisico sull’animale c’è anche un impatto economico sulla redditività dell’allevamento».
Insomma, fino a qualche anno fa si pensava che dopo un intervento chirurgico non fosse necessario somministrare antidolorifici perchè così l'animale "stava più fermo". Oggi fortunatamente non è più così, e l'analgesia è una componente fondamentale del post operatorio, a cui tutti i medici veterinari dovrebbero prestare attenzione.
Nessun dolore significa guarigione migliore, e più rapida.