Mer, 1 Mag, 2024

Italiani “Brava gente”...la persecuzione ebraica nel ricordo delle donne che la subirono

Italiani “Brava gente”...la persecuzione ebraica nel ricordo delle donne che la subirono

Fare memoria di quello che accadde per non cadere in quello che Liliana Segre ha definito "il muro dell'indifferenza"

Le leggi razziali tolsero agli ebrei italiani molti diritti e rappresentarono il primo tassello della persecuzione che, tra il 1943 e 1945, raggiunse livelli di immensa sofferenza. Si passò dalla cosiddetta “Campagna dei cartelli” ("E' vietato l’ingresso ai cani, ai mendicanti e agli ebrei, “Per ragioni di igiene è vietato sputare sul pavimento e l’accesso ai giudei”)  ad un clima di tensione e di vera persecuzione, resa ancora più complicata dall’ingresso in guerra dell’Italia
accanto alla Germania. Mentre circolava il film “Sùss l’ebreo”, film di ispirazione nazista nel quale l’ebreo veniva dipinto secondo gli stereotipi della propaganda antisemita del regime. Anni di convivenza comunque difficile.

Racconta la triestina Diamantina Vivante «a noi ebrei ci hanno portato via anche la radio. Mio padre aveva bottega giù nel ghetto; era rigattiere, teneva mobili vecchi, ma non poteva più lavorare. Mi ricordo anche che se andavo in strada c’era sempre qualche ragazzo della zona vicina a casa mia che mi diceva “Porca di un’ebrea”, ma si consideravano queste cose come ragazzate. Non ci facevo caso, ero una ragazzina anch’io e se lui mi diceva “ebrea” io gli dicevo “cristiano”, ecco, fino a quel punto arrivavano i nostri insulti e non abbiamo mai messo i genitori in mezzo per queste cose». Un insulto considerato ancora alla stregua di una “ragazzata” da Diamantina.

Ma c’è dell’altro. Parlando del rapporto tra ebrei e fascisti, si sottolinea come fra gli stessi ebrei ci fossero inizialmente dei fascisti. Ma dopo, con la guerra, tutto cambiò «Mi ricordo che dopo, con la guerra, erano andati al nostro Tempio e lo avevano saccheggiato, mi ricordo benissimo di questo fatto. Andavano e rompevano, buttavano pietre e saccheggiavano perché c’era sempre l’occasione di impossessarsi di qualcosa».

In quegli anni emigrare era difficile: dipendeva ovviamente dalle possibilità finanziarie ed i titoli di studio conseguiti in fondo non avevano più valore e quindi ognuno cercava comunque di imparare un lavoro, le ragazze soprattutto taglio e cucito. Ma spesso confinati nei ghetti, gli ebrei conservavano una parvenza di libertà e certamente nessuno avrebbe mai potuto immaginare che cosa stava per avvenire.

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Migliaia di famiglie ebraiche sottovalutarono la portata dei segnali negativi che giungevano in particolare dalla Germania ma che, anche in Italia, le leggi razziali avevano evidenziato.

Scrive Lia Levi nel suo romanzo "Questa sera è già domani" «I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovano fradici senza neanche essersene accorti. Le leggi razziali diventarono operative ancor prima che fossero pubblicate».

Sottolinea Fabio Isman «sono 320 provvedimenti fino al 25 luglio 1943, e un altro centinaio dopo, di crescente crudeltà, in una progressiva intensificazione di leggi, decreti, circolari e disposizioni sempre più limitative e vessatorie, che dura sette terribili anni: dal 20 aprile 1938 al 20 aprile 1945, quando mancavano una manciata di giorni alla fine delle ostilità».

Proibizioni maggiori e minori che «volevano raggiungere l’effetto- ha spesso detto Liliana Segre - di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso».

Nella persecuzione contro gli ebrei ebbe un ruolo significativo anche una serie di normative contro la proprietà ebraica: nella ricerca storica "Le case e le cose", l’autore Fabio Levi sottolinea  «i provvedimenti legislativi intesi a regolare l’esproprio furono essenzialmente tre. I primi due vennero emanati nella primissima fase della campagna “razziale” divenendo così parte integrante del progetto persecutorio impostato da Mussolini nel 1938; il terzo seguì di poche settimane la svolta dell’8 settembre, la nascita della Repubblica Sociale Italiana e l’avvio della fase più oscura delle deportazioni e degli eccidi, a significare che anche per la spoliazione dei beni, ritenuta sin dall’inizio un aspetto essenziale dell’azione contro gli ebrei, la normativa doveva essere tempestivamente precisata e soprattutto aggravata».

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E la parola “indifferenza” si deve sicuramente aggiungere alla vergogna delle leggi razziali,  "il muro dell’indifferenza", lo definisce Liliana Segre «ho visto e ho provato quanto l’indifferenza sia molto più grande della violenza stessa. La violenza spesso non ci trova impreparati, dalla violenza cerchiamo di difenderci, magari nascondendoci, magari preparandoci con armi morali o peggio ancora non morali, ma combattere l’indifferenza è impossibile. E' come una nuvola grigia, è come una nebbia, qualcosa che ti stringe, incombe e non sai dov’è il tuo nemico. In fondo non è un tuo nemico, non fa nulla, ma è terribile quel non fare nulla, voltare la faccia dall’altra parte. Questo è successo in Italia, in tutta l’Europa, quando le leggi nazifasciste passarono in Francia, in Austria in Ungheria; là dove c’era il potere nazifascista, gli ebrei furono vittime soprattutto dell’indifferenza».

La propaganda antiebraica, le discriminazioni vergognose non furono sufficienti a far percepire quanto stava per capitare. E’ ancora Liliana Segre a raccontare «la sensazione prevalente era l’incredulità, qualcuno arrivato dall’estero raccontava di persecuzioni agli ebrei in Germania, ma in casa nostra si ripeteva che probabilmente erano esagerazioni, che qui non sarebbe successo, che gli italiani erano diversi. Papà ne era convinto e poi non voleva lasciare i nonni che erano malati e non avrebbero potuto affrontare un lungo viaggio».

Parte proprio da quelle vergognose leggi la svolta che portò di fatto migliaia di cittadini italiani, donne, bambini, uomini, di origine ebraica verso la devastazione fisica e psicologica del lager, spesso verso la morte nelle camere a gas. I “sommersi”, tutti coloro che non poterono ritornare e non poterono testimoniare con le loro parole. Ma lo fecero attraverso il sacrificio della loro vita. I “salvati” che riuscirono a sopravvivere alla Shoah e raccontarono, svelando al mondo intero ciò che sembrava impossibile fosse stato ignorato: l’Olocausto, quel profondo pozzo di umanità perversa a tutti sconosciuta.

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La situazione ebbe una svolta improvvisa in senso negativo con l’8 settembre 1943 quando, a causa dell’armistizio, i tedeschi entrarono di fatto in casa nostra.

«Dopo l’armistizio, gli ebrei dell’area centro-settentrionale furono sottoposti alla persecuzione congiunta degli occupanti tedeschi e dei fascisti della Repubblica Sociale: nel novembre 1943 la “Carta di Verona” revocò la cittadinanza agli ebrei indicandoli come appartenenti a “nazionalità nemica”. E la caccia all’ebreo divenne una terribile nuova dominante di quel fare la guerra lì, nei luoghi dove si viveva, lì nei luoghi in cui ci si nascondeva, lì, nei luoghi in cui si organizzava la resistenza». da "Le donne della Shoah" (gennaio 2022) di Bruna Bertolo

Mi sono sentito in dovere di riprodurre integralmente questo pezzo di storia italiana, principalmente per un motivo molto semplice: quando è una donna a raccontare le tragedie dell’umanità, queste hanno un significato particolare e molto più profondo di tante storie simili nei dettagli, ma narrate da uomini: se poi lo stesso racconto fa riferimento a drammi vissuti dalle stesse donne e grazie a loro giunte sino a noi, allora è d’obbligo una certa attenzione. La donna crea l’uomo, quindi per natura è sicuramente l’entità più titolata per poter spiegare al mondo pregi e difetti della sua creatura, ma per troppi secoli è rimasta confinata in un limbo di immotivata inferiorità rispetto all’uomo al quale ha pur dato la vita.

Questa assurda posizione di prevaricazione che l’uomo nei secoli ha riservato alle donne di ogni ceto e rango, ha per molti versi negato molte verità che le stesse non hanno mai potuto evidenziare al di fuori del loro ristretto mondo
in cui erano state confinate dai pregiudizi maschili, benchè forti e motivate da istinti materni che l’uomo non potrà mai conoscere appieno. Ecco quindi che raccontare la tragedia della Shoah con l’animo e l’intelligenza femminile, ha per certi versi un significato più profondo, in quanto il dramma dell’Olocausto è percepito quasi come una prosecuzione di quel dolore vissuto per secoli da una grande parte di donne ritenute inferiori, quasi accantonate dalla storia grande e piccola, a volte spesso disconosciute nelle stesse famiglie patriarcali dove il più debole rischia di diventare un oggetto, una schiava, qualcosa di cui si può anche fare a meno nel momento in cui non serve più: basta guardare i dati sui femminicidi e farsi qualche domanda in proposito.

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A volte mi chiedo cosa sarebbe la memoria senza l’aiuto nel ricordare delle donne che hanno vissuto la storia, subendola tutta sulla loro pelle e prima ancora nelle menti. Se l’universo fosse abitato da soli uomini, sicuramente questi si sarebbero già estinti, non per l’incapacità di riprodursi, un modo lo troverebbero sicuramente anche solo per poter continuare a giocare a far la guerra, ma per la straordinaria abilità da loro dimostrata nel sapersi annientare da soli, con le armi, a mani nude, con i denti di quei predatori in cerca di prede innocenti per una mai sopita sete di vendetta: l’uomo agisce spesso e volentieri senza pensare, riflettere, vagliare, fidandosi sempre e solamente della sua forza fisica e quando alla fine darà la sua versione dei fatti, sarà sempre falsa.

Al contrario la donna, in quanto madre, ha insito nell’animo una normale e logica predisposizione all’autoconservazione, alla tutela del bene inteso come somma di principi e doveri che ogni essere umano dovrebbe sentire suo.  Sicuramente avrei potuto dire tante cose sulla Giornata della Memoria e su tutte le altre ricorrenze che si rincorrono nel tempo e sulle sofferenze che l’uomo si procura quotidianamente ancora oggi: la guerra in Ucraina, il
conflitto nella striscia di Gaza, i venti di guerra sparsi nel mondo che si possono contare come i ceci quando ti cadono dal piatto, i regimi totalitari e tutte le orrende cose che accadono nel pianeta mentre noi pensiamo al pandoro ed alle bambole delle influencer di casa nostra. Beata ignoranza.

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Quante donne morte, quanti bambini assassinati, ma soprattutto quanti uomini avranno il coraggio di dirci un domani tutta la verità di quello che oggi, ora, in questi minuti sta succedendo nel mondo? Ecco quindi l’importanza del motivo e del perché, il racconto fatto dalle donne, quelle che hanno visto, patito e subito, ma anche quelle che hanno avuto la sensibilità di raccontare il dramma delle tante madri e sorelle che non hanno mai conosciuto in vita, assume una straordinaria importanza. La voce della donna è quella cosa di cui hai fiducia in quanto permeata da franchezza e sincerità, mai banale ma sempre attenta ai particolari e se questi provengono dai meandri più oscuri della storia dell’umanità, l’attenzione ad essi è sempre di notevole attenzione per poter percepire e testimoniare: Nellie bly, Clare Hollingworth, Oriana Fallaci, Anna Stepanovna Politkovskaja e molte altre figure di reporters sul campo ne sono un esempio.

Alcuni giorni fa, durante una trasmissione televisiva, ho sentito da Liliana Segre queste parole «a volte camminando incrocio delle persone che mi guardano in silenzio: una volta passate le sento sussurrare tra loro, dopo avermi riconosciuta, che quello che dico da una vita è tutto falso. L’indifferenza è ancora oggi il male oscuro di tutte le nostre società, ma quando a questa si accompagna il dubbio della persona, ecco che il tarlo della diversità affiora come un tempo, subdola, traditrice, silenziosa, come quella lunga e sinuosa lingua di fumo che si sprigionava dai forni crematori che nessuno ha in mente di spegnere ancora, nella mente e nell'anima».

Schedina Calvo

 

 

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