Lo ha deciso il Consiglio regionale con la votazione che ha optato per il 19 luglio
Finalmente, dal 19 luglio in poi, ogni piemontese potrà dire con orgoglio che la festa della sua terra, della sua gente e della sua storia, è rappresentata ufficialmente e definitivamente attraverso un passaggio storico fondamentale.
Un passaggio che rappresenta tutto il mondo subalpino, nato 276 anni fa in cima ad un monte dei tanti in questa regione, attraverso una battaglia, una delle molte combattute sulle nostre terre, dove si intrecciarono in poche ore i destini di migliaia di uomini che lasciarono una traccia profonda nell’animo di chi sopravvisse e potè raccontare le tante, troppe cose, che quel giorno capitarono su quel ripido colle.
La battaglia dell'Assietta
Era il 19 luglio del 1747, quando sul colle dell’Assietta, impervia punta, baluardo naturale della difesa piemontese nell’arco montano che separa la Val Chisone dalla Val Susa, si combattè una battaglia per molti aspetti decisiva per le sorti di una tra le prime e più grandi guerre tra regni europei, passata alla storia come la “guerra di Successione Austriaca”. Essa era nata per la disputa del trono d’Austria, al quale miravano in molti e tutti decisi a darsi battaglia, anche nelle lontane colonie d’oltremare, dove le antiche monarchie del vecchio continente avevano gettato le basi per aumentare il loro prestigio e la loro potenza economica, attraverso le rotte commerciali delle lontane Americhe, che da tempo erano ormai diventate la linfa vitale degli esausti troni d’Europa.
Il Piemonte, come sempre obbligato a schierarsi da una parte o dall’altra delle diverse fazioni in campo, era coinvolto con il suo territorio e la sua gente in questa disputa, che a differenza di tutte le altre guerre combattute in Piemonte, vide nascere, per gli avvenimenti, i personaggi ed i luoghi interessati dai fatti d’arme, un alone di leggenda, che mai prima di allora e forse nemmeno dopo, la memoria può ricordare.
Le riforme del nuovo re Carlo Emanuele III
Lo Stato sabaudo, passato da Ducato a Regno nel 1713, dopo la firma del trattato di Utrech, che poneva fine alla guerra di Successione Spagnola, aveva vissuto anni difficili, con le campagne impoverite dal transito degli eserciti, sia nemici che alleati, tutti occupati a saccheggiare le nostre rigogliose valli, trasformandole in luoghi di miseria, dove la fame e le malattie divennero vere calamità ed il nuovo Re di Sardegna, Carlo Emanuele III, figlio del grande Vittorio Amedeo II, liberatore, con il cugino Principe Eugenio di Savoia, della Torino assediata dai Francesi nel 1706 dal maresciallo di Francia La Feuillade, aveva intrapreso un percorso di riforme e migliorie legislative, per rendere più snello ed operativo il sistema burocratico sabaudo, che grazie alla sua organizzazzione di secolare memoria, aveva nella pubblica amministrazione dell’epoca, punti di forza non comuni, grazie a tante personalità di valore che si susseguirono a fianco del monarca piemontese.
Una di queste era indubbiamente il Conte Giovanni Battista Bogino di Chieri, coetaneo dello stesso Carlo Emanuele III. Ministro della Guerra nel 1747, amico e consigliere personale dello stesso Re di Sardegna, precedentemente fautore dell’organizzazzione delle milizie franche nelle campagne piemontesi, protagonista della preparazione dell’assedio di Asti nell’inverno del 1746, che portò i reggimenti sabaudi e svizzeri\alemanni al comando del Barone Von Leutrum (il leggendario Barun Litrun, immortalato nella memoria piemontese da una filastrocca che magnificava la sua capacità bellica assieme alla sua religiosità di stampo protestante), a liberare prima la zona di Moncalvo e Gabiano, con i loro castelli occupati dal nemico francese, per poi guidare i suoi battaglioni di regolari a fianco delle compagnie franche monferrine, levate nelle zone collinari del basso Monferrato Astigiano dal Conte Radicati di Robella Cocconato, sotto le mura dei bastioni della cittadella di Alessandria assediata dall’esercito galloispanico, il quale, appena saputa la notizia dei movimenti le forze sabaude del Von Leutron, tolse l’assedio e si ritirò verso la Lomellina, lasciando nei trinceramenti scavati nelle parallele d’attacco alla città, molti cannoni, mortai e munizioni: questo importante fatto d’armi, avvenuto nel contesto della guerra di Successione Austriaca, quindici mesi prima della battaglia dell’Assietta, fu decisivo per le sorti di questa guerra che per parte sabauda si potè dire vittoriosa, ma non del tutto conclusa, dopo la vittoria sul mitico colle, mentre la sconfitta e l’evacuazione di tutti i reparti militari franco\spagnoli dalle zone del Monferrato ad opera del Leutron, facilitò la comunicazione e quindi la completa riorganizzazzione dell’esercito sabaudo per trovarsi quindi pronto e preparato ad affrontare per l’ultima volta, quella decisiva, l’invasore francese sul colle dell’Assietta, dove la Francia subì una delle più tremende ed umilianti sconfitte della sua storia.
La scelta della data della festa del Piemonte del Consiglio regionale
Ho la grande fortuna di essere in pace con me stesso quando scrivo di storia, forse perchè non mi interesso della politica odierna, quindi evito arrabbiature che alla mia età potebbero essermi fatali, non per questo posso far finta di ignorare che la votazione avvenuta in Consiglio regionale per la proclamazione della data della festa del Piemonte, sia stata boicottata o ignorata, dai rappresentanti dell’opposizione, e questo fatto, seppur totalmente legittimo come si conviene in una salda democrazia parlamentare come la nostra, lascia un po’ di amaro in bocca, perchè si può essere divisi su tutto, ma quando è in ballo la memoria storica, non ci dovrebbero essere divisioni e converrebbe camminare abbracciati ad ideali e principi nati secoli fa, anche dal sacrificio della nostra gente.
Molti avrebbero forse visto con favore una data rappresentativa del sacrificio partigiano nelle nostre valli, durante la sanguinosa guerra civile che per quasi due anni deturpò l’anima ed il corpo di molti nostri conterranei e sinceramente non avrei avuto nulla da obiettare come semplice cittadino, ma è anche vero che la storia, quella di tutti, non solo la nostra, purtroppo, è sempre stata costellata di avvenimenti che inevitabilmente, per mille ragioni e tanti errori, sfociavano poi in guerre deliranti e mai totalmente studiate e quindi capite ancor oggi, ma che hanno generato violenze inaudite su intere popolazioni, senza risparmiare nessuno, lacerando tessuti sociali che per generazioni hanno subito il ricatto della rivincita e della vendetta a torti disumani ai quali non c’è rimedio alcuno, se non sperare nel tempo, nei ricordi che a poco a poco sbiadendo possano lasciar spazio a nuove coscienze.
Guerra e culto del sacrificio umano
Il culto del sacrificio umano in guerra è stato sublimato dalla retorica militarista francese al termine della prima Guerra Mondiale, ripreso dal pensiero onirico dannunziano all’alba della nascita del fascismo in Italia, consolidato al tramonto del secondo conflitto mondiale, dove per la prima volta si sono intrecciate le lapidi dei soldati caduti per una causa e quelle dei civili martirizzati nei campi di sterminio le cui cause ahimè, vengono discusse e dibattute ancor oggi, tra revisionismo e negazionismo becero ed inconsulto.
Ma i morti ci sono stati anche prima tra la nostra gente, fossero soldati, volontari, militi o civili poco importa, ma nessuna lapide li ricorda, racconta le loro vite, disegna il loro triste destino, povere anime che hanno per secoli combattuto non solo per il loro Duca o Re che fosse, ma principalmente per difendere le loro famiglie, la loro terra i pochi averi che avevano, non ultimi l’orgoglio e la dignità che sicuramente avevano in seno, per poter affrontare i disagi delle guerre di quei tempi: quasi sempre non si conoscono i loro nomi. Ecco quindi che è giusto e doveroso ricordare anche loro, anche se non esistono tombe, perchè si piange l’uomo e non la pietra e se questa non c'è, deve rimanere perennemente il ricordo di chi è nato ed esistito per poi morire difendendo Patria e famiglia.
Se poi analizziamo i fatti che sconvolsero uomini e menti in quel torrido pomeriggio di luglio del 1747 sul colle dell’Assietta, tanti e tali da far nascere detti e leggende, aneddoti e racconti, sempre ripresi ad esempio della memoria tipica piemontese, allora si comprende e si accetta il fatto che la data del 19 luglio possa tranquillamente rappresentare un popolo e quindi la sua festa.
Descrivere una battaglia come quella avvenuta sul colle difeso da ridotte e trinceramenti in pietra, terra e fascine dietro i quali migliaia di persone di diversa nazionalità e religione aspettarono a piè fermo il nemico, sarebbe troppo lungo e dispersivo nel contesto di una articolo di storia, ma alcune cose vanno rimarcate per meglio comprendere il perchè, questa giornata, è divenuta nel tempo il simbolo della piemontesità.
Le fasi salienti della battaglia sul colle dell'Assietta
La Francia desiderava dare il colpo di grazia al Piemonte con un attacco sul territorio montano che, secondo i calcoli degli ingegneri militari transalpini, avrebbe permesso ai medesimi di far penetrare le truppe nelle conche alpine tra la Val Chisone e la Val di Susa evitando le piazzeforti sabaude, penetrando quindi nella pianura subalpina cercando poi di attaccare ed occupare direttamente la capitale Torino. Sul colle dell’Assietta sono schierati i migliori reggimenti piemontesi,
svizzeri, tedeschi e compagnie franche valdesi per un totale di circa 6.160 uomini, componenti i 13 battaglioni presenti sul colle. Il comandante generale è Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio.
Nel fondovalle, i giorni precedenti, si è riunito un esercito di circa 20.000 uomini che compongono 32 battaglioni dell’armata francese al comando del Conte di Bell’Isle, con alcune bocche da fuoco: la notte precedente la battaglia, sicuro della vittoria, questo imprudente quanto ambizioso militare, scrisse al fratello che il successo contro i piemontesi gli avrebbe consentito di ottenere il tanto agognato bastone di Maresciallo, alto simbolo di comando francese, ignorando che quelle parole furono le ultime che il Bell’Isle potè scrivere.
Alle 16,30 del 19 luglio 1747, le forze francesi muovono all’attacco delle postazioni austro\piemontesi ed il colpo d’occhio della massa di uniformi multicolori dei reggimenti scelti che attaccano le alture, sicuramente era stato studiato per disorientare i difensori, che però rimasero impassibili dietro le loro difese.
Piemontesi "bugianen", quando forza e tenacia distinguono un popolo
Ci fu un solo attimo in cui il Bricherasio, vedendo alcuni reggimenti francesi comandati dal Maresciallo Villemur portarsi decisamente verso la sommità del Gran Serin, decise di spostare a rinforzo del settore difeso da reggimenti austriaci, alcuni battaglioni piemontesi, in particolare 2 compagnie Granatieri ed 1 compagnia Guardie, ordinando al loro comandante Conte di San Sebastiano di ritirarsi dal posto più avanzato del’Assietta, dove in precedenza gli era stato imposto di posizionarsi, ma questi rifiutò e rivolgendosi direttamente al comandante generale disse in lingua piemontese «Nui da sì as bugiuma nen».
L’ardire di quest’ufficiale e la capacità di comando del medesimo ebbero ragione nel resistere nella posizione che non venne in alcun modo presa dal nemico e da quel giorno e per questo specifico fatto, la parola “bugianen” venne accostata alla tenacia e forza del soldato piemontese, divenendo nel tempo la parola che distinguerà il medesimo da tutti gli altri.
Inoltre Paolo Novarina Conte di San Sebastiano, era figlio di Anna Teresa Canalis di Cumiana che, rimasta vedova nel 1730 divenne moglie morganatica del Re di Sardegna e nominata Marchesa di Spigno dallo stesso Vittorio Amedeo II, che aveva già rinunciato alla guida dello Stato sabaudo a favore del figlio salito al trono con il nome di Carlo Emanuele III. L’anno dopo, il sessantacinquenne Vittorio Amedeo, cercò di riprendersi il trono, ma il figlio si oppose e fece confinare il padre
nel castello di Moncalieri, mentre la Marchesa di Spigno fu addirittura arrestata.
La clamorosa sconfitta francese
Ritornando alla battaglia, i comandanti francesi non avevano calcolato le difficoltà che avrebbero affrontato i loro soldati nell’inerpicarsi verso i trinceramenti sabaudi, tanto che per alcuni tratti, a causa del terreno scosceso, i fanti dovevano arrampicarsi con le mani senza poter usare le armi e questo li esponeva e li rendeva indifesi inevitabilmente al fuoco dei difensori, che con i loro moschetti fecero carneficina dei poveri soldati francesi che faticavano a salire sul colle, mentre i pochi che riuscivano avvicinarsi alle postazioni dei nostri, venivano falcidiati da scariche ravvicinate di fucile, dalle esplosioni di rudimentali granate scagliate loro addosso se non di massi che venivano fatti rotolare nei declivi dove i francesi cercavano riparo e per chi riusciva ad arrivare esausto in cima, veniva ucciso a colpi di baionetta, picca o sciabola: fine che toccò anche al comandante in capo francese, il Conte di Bellisle, che vedendo cadere i suoi migliori ufficiali, durante le ultime fasi della battaglia nel tardo pomeriggio si mise disperatamente alla testa di quello che rimaneva dei suoi battaglioni ed assieme ad un alfiere portastendardo, riusciì ad arrivare alla base del triceramento difeso da regolari piemontesi, che con due colpi di moschetto, uno al braccio ed uno fatale alla testa, lo uccisero.
Il suo corpo, poi riconosciuta l’identità, fu portato a valle per una degna sepoltura, evitando l’oblio delle fosse comuni che necessariamente si allestivano per
“sanificare” il campo di battaglia, cercando così di evitare epidemie, velocizzando le sepolture di migliaia di corpi assaliti dalla putrefazione facilitata dal gran caldo.
La necessità della sepoltura dei soldati per evitare la putrefazione: il caso della Marsaglia
Cinquant’anni prima, dopo la battaglia della Marsaglia avvenuta nella pianura di Volvera, nel luogo chiamato Croce Barone, dove l’esercito sabaudo al comando del Duca Vittorio Amedeo II fu sconfitto da quello francese agli ordini del Maresciallo Catinat, un numero imprecisato di cadaveri non potè essere sepolto, tanto che per molti anni le terre su cui fu combattuta la battaglia, rimasero volutamente incolte dai contadini della zona, facendo anche nascere leggende e superstizioni che rimasero per molti anni nelle memorie degli abitanti del luogo.
Dopo la morte del loro comandante e le gravissime perdite, la disfatta dell’esercito francese era ormai chiara e verso le 21 la battaglia terminò con la ritirata completa del medesimo dalle alture inviolate difese dai nostri. Alla fine della giornata l’esercito francese contò più di 5.000 perdite tra le fila dei suoi soldati, mentre i difensori dell’Assietta piansero 208 uomini. Questa battaglia, decisiva per le sorti del futuro del Piemonte, resta sicuramente la vittoria militare più brillante nella storia del nostro piccolo Stato Sabaudo ed i protagonisti di allora, siano essi stranieri come il Barone Von Leutrum, di fatto comandante in capo dell’esercito del Regno di Sardegna in quello specifico frangente o il Principe Margravio di Baden, sia i comandanti piemontesi le milizie franche Conte Radicati Cocconato, come il Conte di San Sebastiano Paolo Novarina, il responsabile della difesa del colle Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, passando dal Governatore di Susa Balbiano, il Marchese Ricci di Cereseto, Il Marchese di Cumiana e tanti altri sotto l’attenta ed esperta guida del ministro Bogino, dimostrarono tutti un attaccamento al dovere encomiabile, supportato da principi e valori che con orgoglio e passione la nostra gente nel tempo ha fatto suoi, come è giusto e doveroso che sia.
La pace di Aquisgrana stipulata il 18 ottobre 1748, dopo anni di feroci combattimenti tra i più potenti eserciti d’Europa, mise fine a questa guerra che tanta sofferenza aveva procurato al Piemonte.
Il generale Guido Amoretti e i suoi studi
Ma forse la data del 19 luglio non sarebbe mai diventata un simbolo per noi piemontesi, se il generale Guido Amoretti, con i suoi studi, la sua tenacia, la sua forza di uomo pragmatico, la bontà d’animo ed il grande attaccamento alle sue radici legati ai principi dell’antica scuola militare sabauda, non avesse dedicato l’intera sua vita a scoprire e rivalutare la memoria del suo popolo, scoprendo la scala di Pietro Micca, facendo nascere sul posto nel 1961 il museo dedicato all’assedio di Torino del 1706, di cui fu presidente per circa 47 anni, realizzando molti preziosi testi di storia, frutto di ricerche lunghe e faticose, sempre presente nel ricordare gli avvenimenti dell’Assietta.
Una mente ed un cuore che custodivano storie, aneddoti e vicende, che la figlia Carla ha saputo conservare e valorizzare con amore istituendo un apposito archivio dove tutto è stato catalogato e studiato e si spera che le Istituzioni possano cristallizzare questa monumentale opera che racconta molto del nostro passato di “bugianen”: la festa del Piemonte è più completa se uniamo la data del 19 luglio, giorno in cui l’ardire tutto piemontese si elevò ad orgoglio nazionale e la data del 14 luglio, giorno in cui scomparve l’uomo che con umiltà e passione contribuì a ricordare a tutti noi che conservare la memoria è un dovere, in quanto, sono più importanti i nomi della nostra gente che si sacrificò senza essere ricordata ma da sempre presente nel cuore di ognuno di noi di quelle mai scolpite sulle lapidi di chi è stato dimenticato dalla grande storia.