Sab, 27 Apr, 2024

Quattro passi con Gianni Vattimo nel silenzio notturno di una Torino deserta. Dopo una conferenza di tanti anni fa a Volpiano

Quattro passi con Gianni Vattimo nel silenzio notturno di una Torino deserta. Dopo una conferenza di tanti anni fa a Volpiano

Tenne una conferenza in occasione dell'inaugurazione della sala conferenze di Palazzo Oliveri

Sono passati ormai molti anni da quando ebbi l’occasione di conoscere il filosofo Gianni Vattimo, ma il ricordo di quel giorno è sempre presente nella mia mente, come penso in tutti coloro che hanno avuto il piacere di conoscerlo.

L’idea di invitare il filosofo a Volpiano, era nata in merito all’inaugurazione della sala conferenze di Palazzo Oliveri, sede di alcune associazioni volpianesi, tra le quali quelle ad indirizzo storico, come “Terra di Guglielmo” ed “Amici del Passato”, nate quasi simultaneamente in un ambiente cittadino che mirava a rivalutare il suo passato, facendo conoscere al pubblico tradizioni, usanze e personaggi che nel tempo furono protagonisti della vita di questo piccolo angolo di Canavese.

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Tramite l’Anpi della sezione di San Benigno e Volpiano, contattammo il filosofo Vattimo, che si rese subito disponibile, a titolo per altro gratuito, nell’ambito di alcune serate a tema storico\culturale che le associazioni avevano programmato: in una di queste il filoso trattò il tema “Guerra e Pace nel nuovo millennio” con alcune sue riflessioni particolarmente seguite ed apprezzate, sulla questione palestinese.

Era la sera di un 10 novembre, fredda e gelida  Vattimo arrivò con un treno da Milano, dove era stato ospite del programma televisivo “L’antipatico”, condotto dal giornalista Maurizio Belpietro e scese alla stazione ferroviaria di Brandizzo, dove alcuni soci del sodalizio lo attendevano per accompagnarlo in auto a Volpiano.

Quando lo vidi arrivare in sala, ebbi l’impressione di una persona con un carattere umile, quasi timido nel momento del saluto, sorridente e piacevolmente affabile nei modi e nella gestualità. Portava con elegante disinvoltura un “loden” di taglio anglosassone, una sciarpa lunga che gli avvolgeva il collo e scendeva sulla schiena, dando l’impressione più del distinto e riservato professore di “Harward”, piuttosto che del serioso ateneo di Torino.

Ero curioso di sentire le sue parole, il tono, il modo con cui esprimeva i suoi pensieri, capire se l’essere tacciato di antisemitismo, come molti commentatori di allora lo accusavano, fosse dovuto ad una scarsa conoscenza del personaggio o più semplicemente ad una condizione culturale che vietava, per intelligenza e coerenza degli stessi, ad ammettere di trovarsi di fronte ad una persona che univa pensiero e logica, come fonte primaria del sapere, quindi tutto da scoprire.

Non conoscevo ed ancora ignoro tutto del “pensiero debole” di Gianni Vattimo, non comprendo nulla di ermeutica e teoretica, quindi non mi addentro in meandri filosofali che non mi appartengono, ma conoscere l’uomo sotto il profilo umano avvolto in uno straordinario sudario di intelligenza pratica, mi incuriosiva e mi portava a pensare che tale esistenza fosse permeata di una corazza di rara entità, improntata ad un libero pensiero, solo sfiorato da sentieri ideolologici che il filosofo studiava ma non percorreva o delineava nel suo percorso didattico.

All’epoca Gianni Vattimo era sì famoso ed apprezzato da molti, ma nello stesso tempo, quasi denigrato da altri, come capita spesso e volentieri a tutte quelle personalità che in forza della loro marcata sensibilità, danno anche molto fastidio ai benpensanti della quotidiana, monotona e quasi pallosa esistenza.

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Fu una bella serata, piena di spunti che il filosofo intercalava e frammentava, quasi come un invito ad essere curiosi nell’apprendere la storia, i fatti , le vicende, tratteggiando un mondo nel quale la logica si scontra con il pregiudizio, mezzo quest’ultimo per arrivare ad ataviche lotte che portano a nuovi conflitti, basati sulla voglia di potere e di prevaricazione, ricordando che, oggi come nei secoli addietro, le guerre hanno sempre una base economica, umiliando un progresso che non sempre accompagna le vite delle popolazioni per migliorare le loro condizioni sociali, ma asservito a spregiudicati disegni politici utili a pochi.

Al termine della serata, dopo una piccola cena offerta a Vattimo con alcuni amici e soci, in compagnia dell’allora sindaco di Volpiano “Cecco” Goia, mi presi cura di accompagnare in auto il filosofo presso la sua casa sita in via Po a Torino. Partimmo dal ristorante quando mezzanotte era scoccata ormai da un pezzo ed il breve viaggio, fu costellato di aneddoti, curiosità e banalità rese però interessanti dalla dialettica che Vattimo usava nel descrivere le situazioni: un insieme di discorsi che non seguivano un filo logico, una semplice chiacchierata tra due che si danno un passaggio e si incontrano per la prima volta nella loro vita, ma che alla fine riportano a conclusioni condivise.

Giunti in prossimità della sua abitazione, mi fermai e gli chiesi se aveva voglia di fare due passi sotto i portici di via Po: eravamo quasi al centro di questa antica arteria viaria sabauda, la notte era straordinariamente chiara, spazzata ogni tanto da aliti di vento che ci obbligavano a portare le mani sul colletto del cappotto per stingerlo al collo e proteggere dai fastidiosi spifferi, in un silenzio totale e surreale, una città ferma e sonnolenta, maestosa nelle sue case rese scure dalle loro stesse ombre che le abbracciavano silenti dove la vita appariva sospesa, priva dell’uomo e di vita, quindi un paesaggio meravigliosamente vergine che ci circondava con tutta la sua secolare storia.

Erano le due di notte quando arrivammo di fronte all’antica gioielleria “Musy”, per secoli orafi di re e regine, dei benestanti di quella vecchia Torino baciata dal boom economico degli anni '60 di cui rimanevano gia’ all’epoca poche tracce ed oggi chiusa, come molte botteghe artigiane cittadine.  Ci soffermammo in quell’angolo di portico che divide piazza Castello e l’inizio dei portici, sostammo qualche minuto sotto l’insegna di una antica fabbrica di spartiti musicali allora gestita da una gentile signora sempre accompagnata da un piccolo cagnolino bianco, che vedevo ogni tanto di giorno, a volte seduta al tavolino della caffetteria accanto al suo negozio.

Ci godevamo la grandezza del passato ed intanto si parlava della pochezza del presente. Accennai alle tante inadeguatezze della classe politica nazionale, senza sapere ancora che quelle di oggi sono drammaticamente peggiori, e Vattimo annuiva ma non era meravigliato, anche perchè conosceva bene parte della politica ed i suoi nocchieri, lui così di strana sinistra, non banale, asciutto nel commentare con un sorriso tutto quello che secondo lui non andava, ed era tanta, tanta roba, che già non andava in quel tempo.

Mi armai di coraggio, vista la sua disponibilità,  e gli chiesi un suo pensiero sulla causa palestinese, una terra di uomini, donne e bambini senza patria, come i curdi, gli armeni e tanti altri, riconducendo il dialogo sul tema trattato nel suo incontro volpianese. Rispose con una lucidità calma ed assordante nello stesso tempo, convinto di una tesi che mi disse non sua, ma di chi ragiona secondo una serena logica, imprescindibile conseguenza di fattori storici che affliggono il nostro modo di essere e pensare, fino al punto di non ritorno.

Se penso a quelle parole, sapendo oggi quello che sta accadendo in prossimità della striscia di Gaza e quello che inevitabilmente avverrà, mi chiedo perchè tanta intelligenza è rimasta inascoltata, e come quella di Gianni Vattimo, le tanti voci di molti autorevoli personaggi ignorate da altrettanti autorevolissimi individui, che però’ detenevano il potere decisionale, di stabilire chi deve sopravvivere alla sua stessa storia e chi invece deve perire perchè gli viene negato anche il passato.

Parlammo e camminammo, io sempre più serio, quasi come preoccupato dalle parole di questo filosofo che mi chiedevo se piuttosto, non fosse un preveggente, lui con lo sguardo che a volte si abbassava a scrutare il marciapiede, come una resa alla normalità offesa da una realtà che tutti sapevamo illogica, con il viso sempre contornato da una genuina smorfia rivolta ad un sorriso calmo e pacato.

Mi ricordo tutto di quella notte, i passi, le parole, i gesti, gli sguardi, i sorrisi nello sconforto di sapere di vivere quotidianità serene mentre milioni di persone soffrono, come alcuni “clochard” avvolti in coperte di cartoni incontrati quella notte, sotto i portici di una elegante via della prima capitale d’Italia, resi fantasmi in una città che non si riconosce più.

Mi meravigliavo anche della disponibilità al dialogo di quest’uomo ricco di tanta cultura verso una persona come me che non aveva mai conosciuto e che sicuramente non era minimamente alla sua altezza sotto ogni profilo , soli,in piedi, in una fredda notte.

Ci lasciammo con una stretta di mano in una gelida e meravigliosa notte di una strana Torino e promisi a Gianni Vattimo che, appena avrei avuto l’occasione, gli avrei portato qualche bottiglia di vino grignolino e lui ringraziando mi sorrise e disse «sì alla fine forse è meglio berci sopra, a volte serve per non pensare troppo e non sembrare di essere filosofi di se stessi».

Buona sera Professore

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