Apriamo una piccola finestra sul suo modo di intendere la politica
Ci sono uomini che vengono ricordati per quello che hanno saputo fare, altri per come lo hanno fatto, ed altri ancora cercando di scoprire perchè l’hanno fatto, ma sono poche le persone che si interrogano se il lavoro e gli scopi raggiunti da famosi personaggi della storia, fossero il vero obbiettivo di questi ultimi e forse, ancora oggi a distanza di tempo, vale la pena analizzare alcuni aspetti dell’attività di questi grandi uomini che hanno lasciato unimpronta indelebile nella memoria collettiva, se veramente quella per cui avevano creduto e combattuto: è questo il caso del conte di Cavour, uno dei Padri della Patria cristallizzato sui libri di scuola sia del Regno che della Repubblica, assieme a Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini.
L’iconografia grafica classica di questo politico piemontese lo presenta come un signorotto di non alta statura, elegante, dai lineamenti rotondi ma delicati, addolciti nei dipinti per non evidenziare appieno la vera struttura fisica, che invece era rivolta ad un soggetto pingue, ma sempre comunque provvisto di una posa signorile e sobria, il viso quasi sempre ritratto di lato se non di profilo, da dove sotto le lenti dei suoi famosi occhiali, partiva uno sguardo fiero rivolto all’infinito, verso altri orizzonti, che Cavour, in verità, non smise mai di ricercare.
Nei pochissimi ritratti fotografici in albumina, in particolare nel formato carte de visite, un brevetto del fotografo francese Disderi, che in breve tempo venne copiato da molti suoi colleghi in Europa e che presentava la persona fotografata in posa nella misura classica di cm 10 x 6, Cavour è spietatamente incorniciato nella figura vera, che, diversamente dai benevoli artisti del pennello, raffigurava l’individuo per quello che era veramente: basso di statura, anche perchè lo scatto era rivolto quasi sempre a personaggio seduto, raramente a pieno volto, come nei ritratti, ma di profilo,dove però si evidenziavano lineamenti più marcati, capelli a volta spettinati, colorito delle guance che evidenziavano in questo modo anche il carattere, forte,proteso al comando, fiero ma nello stesso tempo anche ornato di una strana smorfia delle labbra verso un ghigno quasi beffardo, un modo innaturale, forse non voluto, che però dà il senso di poca pazienza nel soggetto, abituato a far aspettare l’interlocutore e non invece, in occasione degli scatti fotografici, attendere lui di fronte al marchingegno che faccia i propi comodi legati a questa strana scienza ed ai suoi tempi: una posa in un gabinetto fotografico, immobile, fermo e silente, poteva durare anche 15 minuti, e per questo, si aiutavano i poveri malcapitati in attesa ad appoggiarsi a dei supporti nascosti alla camera, per poter resistere fino al flash finale.
Un suo grande amico, Sir James Hudson, ministro inglese a Torino, l’uomo che verosimilmente patì più di tutti,la scomparsa di Cavour, avvenuta a Torino il 6 giugno 1861, traccia una figura molto significativa dello statista piemontese e non indugia a identificare anche i difetti, ma sempre rivolti ad uno scopo nobile.
Maschera funeraria
D’altronde il personaggio è tutto fuorchè banale
Dal novembre 1852, mese in cui diventa per primo Ministro, tutte le persone che fino ad allora avevano esercitato un potere politico nelle più importanti corti europee, vengono messi in allarme da questo intelligente e spregiudicato signorotto di campagna, proprietario terriero e grande innovatore tecnologico in agricoltura, non un eccelso amministratore, no, ma indubbiamente un uomo che con la sua intelligente curiosità, cerca sempre la via appropriata e più breve per migliorare il lavoro nei diversi comparti del sistema produttivo agricolo, dai vigneti alle risaie, passando dalle bonifiche ai sistemi irrigui, viaggiando molto per l’Europa industrializzata, invitando tecnici esteri sulle sue terre a consigliare e decidere, primo uomo che individua le ricchezze del terreno subalpino come risorsa economica futura per i giovani e non più come motivo di sopravvivenza per quelle popolazioni lontane dalle città.
Forse nasce in quel periodo l’odierno modo di dire, all’inglese sic !,”made in Italy”, una visione futuristica, impensabile allora.
In più, pur essendo cattolico, ha preso molto dalla madre, di origine svizzera, popolo protestante che non ama pavoneggiarsi, come predicato dalla sua dottrina, donna pratica, sobria, molto intelligente, tutt’altro che contraria ad inculcare al figlio dottrine di comportamento e di pensiero liberali ed indipendenti, che saranno il marchio di fabbrica di Cavour fin da giovane.
Chi si preoccupa di più è l’ambasciatore austriaco a Torino che avverte subito Vienna di stare in guardia da questo primo Ministro, scaltro e portato ad affrontare e risolvere qualsiasi problema nel modo e nei tempi più congeniali.
Chi lo incontra per la prima volta non rimane soggiogato dal personaggio, che si presenta sempre sorridente, entra nei discorsi con fermezza ma con altrettanta educazione, la voce ferma, metallica non appare gradevole all’interlecutore, ma diventa poco a poco più graziosa, grazie alle parole sempre pronunciate con i tempi giusti e la cadenza perfetta che denota una persona che prima di parlare ascolta,quindi interviene con pertinenza e sagacia, dimostrando di avere una opinione su tutto quello che lo circonda e quindi discute con esperienza e passione, risultando quindi alla fine molto gradevole.
A differenza del suo Re Vittorio Emanuele II, che oltre ad essere intelligente è anche molto furbo ed in ogni discussione dice all’interlecutore tutto quello che l’altro vorrebbe sentirsi dire, Cavour è più pragmatico e sotto un certo punto di vista più onesto, perchè lui non ha bisogno di accontentare gli altri, in quanto ha la l’innata capacità di costringerli, con la sola parola, a convincere e quindi conquistarsi tutti coloro con cui parla, siano essi plenipotenziari o semplici staffieri.
Un esempio lampante è il celebre discorso al parlamento subalpino di Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, che foglio alla mano, legge il famoso “grido di dolore”, un accorato quanto retorico modo di interpretare le istanze di libertà delle terre occupate dagli austriaci in Italia.
Ho avuto modo di visitare alcuni anni fa, invitato dall’amico storico e scrittore Dino Ramella, il castello di Sommariva Perno e durante la visita privata in compagnia dei proprietari, trovare la copia originale del discorso, appoggiato dolcemente sul comò della stanza da letto di Vittorio Emanuele e Rosa Vercellana, accanto allo stesso letto dove sulle lenzuola di lino era stesa la camicia da notte del Re con le sue iniziali, a lato una piccola credenza con alcune monete commemorative del Regno ed alcune antiche foto dei luoghi di caccia tanto amati dal buon Bigio, come lo chiamava la “Bela Rusin”: un luogo incontaminato ed unico nel suo genere, lontano dalla corte, dai politici, dai dignitari, dagli speculatori ecc, una casa privata di un nobile borghese di provincia, stanze piccole, comunicanti, ma ricchissime di storia.
Il Re con Rosa Vercellana, la sua "sposa morganatica"
Mi piace pensare che tutto è iniziato lì, con il Re, la Rosina e Cavour
La pagina di carta ingiallita con il discorso vergato a mano, ha delle correzioni in inchiostro più scuro e marcato, frutto di ripensamenti o aggiunte fatte di slancio? Chissà...
La storia ufficiale dice che lo scritto è del Re e le correzioni frutto della mente di Cavour, che si premunì di portarlo in visione a Napoleone III, alleato nella Seconda Guerra d’Indipendenza e quindi caro amico dell’Italia e dello stesso Camillo che aveva portato a Parigi la contessa Verasis di Castiglione in veste di agente segreto per il Piemonte, per ulteriori correzioni e migliorie, che ci furono, ma non penso dell’Imperatore, troppo impegnato con la Virginia, ma fatte dallo stesso Cavour: quindi sintesi della storia del “grido di dolore”, fu molto probabilmente che a scriverlo ed a riscriverlo furono il Re e l’Imperatore, ma tutte le parole furono decise dal buon Camillo.
Detto in questo modo, pare quasi che Vittorio Emanuele e Cavour fossero grandi amici, quasi fratelli, visto che il monarca piemontese invitava nella sua dimora privata di Sommariva Perno, all’entrata delle Langhe, a decidere le sorti dello Stato davanti ad un buon piatto di “Tajarin” cucinati dalla Rosina e tra un bicchiere di grignolino ed uno di rosolio, scambiarsi le più intime confidenze politiche, lasciando nell’oblio ministri e senatori, ma non era affatto così.
Il Re temeva, più degli altri Cavour, per la sua grandezza, i suoi principi, la sua libertà di pensiero, la capacità di affrontare qualsiasi evento con fermezza e lucidità cinica e sprezzante, quando il torto subito era palese.
La principessa Clotilde di Savoia
Vittorio Emanuele non perdonò mai a Cavour di aver dato in moglie la sua figlioletta quindicenne, la pia principessa Clotilde ,ad un individuo come Gerolamo Bonaparte, libertino ed inaffidabile sotto l’aspetto umano per il poco rispetto che avrà per la consorte, costringendo Clotilde ad una vita costellata di delusioni ed umiliazioni, sempre però sopportate con grande dignità, da quella che fu veramente la Regina di Sardegna dopo la morte della madre Maria Adelaide.
Frutto di quell’odioso trattato di Plombieres che vide come protagonisti Napoleone III e Cavour, che con il suo segretario ed anche qualcosa in più dal punto di vista dello spionaggio, Costantino Nigra, avvenente, intelligente e molto sveglio, trattarono l’aiuto militare francese nella Seconda Guerra d’Indipendenza culminata con la battaglia di Solferino e San Martino, cedendo Nizza e la Savoia alla Francia ed in più la mano di Clotilde a "Plon Plon” (così era chiamato a corte il principe Gerolamo Bonaparte, che per avvisarlo delle nozze future con la figlia di Vittorio Emanuele, furono costretti a cercarlo per mare ed alla fine di estenuanti ricerche, ritrovarlo sul suo yocht privato in compagnia di alcune allegre fanciulle, giusto per capire il tipo).
Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa internazionale
Cavour aveva quindi, con cinismo premeditato ai danni del suo stesso Re, raggiunto il suo scopo per liberare dal giogo austriaco la Lombardia, ma dopo il massacro sulle colline di Solferino e San Martino, ove involontario spettatore presente ai soccorsi ai feriti si trovava lo svizzeero Henry Dunant, che atteriito dall’orrendo spettacolo dopo la battaglia, fu l’ispiratore di un organo di assistenza che potesse fornire le cure ai soldati dopo i combattimenti: inventò di fatto la Croce Rossa Internazionale, frutto anche di un resoconto che egli stesso pubblicò denunciando la tragedia della guerra, dal titolo “Un Souvenir par Solferino”, quando Napoleone III e Francesco Giuseppe si incontrarono a Villafranca per siglare l’armistizio che prenderà il nome del luogo, mettendo termine alla guerra con la cessione della Lombardia ai francesi da parte austriaca, la quale verrà successivamente donata al Regno di Sardegna, Cavour attacca furiosamente sia l’esercito piemontese che il suo re, accusati di non voler continuare la guerra contro l’Austria, incolpando quasi di codardia gli alti comandi e lo stesso Vittorio Emanuele, reo secondo il suo ministro, di accettare una pace siglata separatamente senza consultare il Re di Sardegna e quindi inaccettabile per Cavour.
Lo scontro verbale fu pesantissimo, tanto che Vittorio Emanuele II, dimostrò in quel momento di essere il più calmo e lucido arbitro della situazione,sapendo perfettamente di non poter continuare la guerra da solo, con un esercito stanco e provato, nonchè decimato da due mesi di scontri e battaglie, quindi si rivolse verso uno dei suoi generali presenti alla discussione e gli ordinò, in merito alla presenza di Cavour ,”ca lu pia e ca lu porta a dorme”. Il sonno portò a più miti consigli, ma la distanza tra il Re e Cavour, diventava sempre più ampia.