Gio, 21 Nov, 2024

“Per noi piemontesi il lavoro non è un culto, è una necessità che implica sudore”. Così Barbero descrive la sua gente

“Per noi piemontesi il lavoro non è un culto, è una necessità che implica sudore”. Così Barbero descrive la sua gente

Il noto storico, docente universitario, scrittore e noto volto della TV in un'intervista al Corriere

 

Il 13 agosto scorso sul Corriere della sera, il professore universitario Alessandro Barbero, chiamato a delineare il piemontese tipo, descrive il medesimo e corregionale in un modo alquanto strano: d’accordo che siamo alla vigilia di un Ferragosto caldo e noioso, appena turbato dal ritorno dei Talebani al potere in Afghanistan con le tragedie umane che deflagrano in quel Paese martoriato, dove i quotidiani di tutto il mondo appaiono infastiditi da questo vecchio problema che rinasce improvviso a disturbare le vacanze di europei ed americani, e di conseguenza molti giornalisti affidano il loro pensiero a temi molto sentiti nel nostro Paese, come quello di far descrivere la popolazione italiana a storici ed intellettuali di ogni regione,in modo tale che, se non bastasse il green pass o la carta d’identità a dire chi siamo e da dove veniamo, ci sia anche un supporto autorevole dei Signori della cultura che ci illustra come viviamo e comportiamo oggi come nel passato.

https://www.corriere.it/sette/incontri/21_agosto_16/barbero-per-noi-piemontesi-lavoro-non-culto-necessita-che-implica-sudore-4803c0ae-f931-11eb-8531-faab9a3adcfb.shtml

E’ tutto un gioco, certo, sappiamo benissimo che in estate i giornali pur non andando in vacanza, usano i cervelli in ferie di molti loro cronisti per inventarsi qualcosa da far leggere agli italiani, con le meningi ormai fuse dal solleone, stesi sotto l’ombrellone intenti a chiedersi se Ronaldo sarà ancora della Juve oppure passerà a costo zero ai granata di Cairo, sperando che il tipo dello sdraio accanto abbia fatto tutti i vaccini necessari in modo da non poter contagiare proprio te che ti dichiari coraggioso "NoVax" ad oltranza, quindi questa intervista va presa per una leggerezza giornalistica estiva, atta a colmare spazi vuoti che tali non possono rimanere in un giornale importante come il Corriere.

Barbero descrive il piemontese tipo dimenticandosi che il culto del lavoro nasce in questa regione, dalle sue campagne, dai villaggi e borghi operosi, e poi trasportato in Torino, tanto che subito dopo si pente e dice che la cosa più brutta che un suo corregionale possa proferire ad un suo simile è “a l’ha nen veuja ad travaje!". Sacrosanto direi, ed aggiungerei che solo un tipo che ha il culto del lavoro nel suo Dna, potrebbe apostrofare in questo modo un suo simile.

Ma non basta, infatti ne ha per tutti, da Cavour, che descrive come un politico destroide e scaltro imprenditore per poi ammorbidirsi e riconoscere in lui valenti doti di politico e mente raffinata, non convenzionale per come lo conosciamo noi,poveri provinciali, mentre lui sicuramente ha avuto modo di sorseggiare accanto al buon Camillo un bicchierino di buon Ratafià di Andorno, chiedendogli  forse, come si sentì dopo l’attacco di Garibaldi in Parlamento che lo accusò di voler fomentare una guerra civile, dopo che l’Eroe dei due mondi si ritirò dall’impresa unitaria, lasciando il Piemonte con il cerino in mano.

Dichiara persino di essere stato poco contento, una quindicina d’anni fa, quando la Casa Editrice Einaudi corredò il suo libro intitolato "La Storia del Piemonte" con un bello stemma sabaudo, lui che desiderava invece una foto del partigiano della Val Chisone, Maggiorino Marcellin e, già che ci siamo, del siciliano ex ufficiale del Regio Esercito, Pompeo Colajanni, che combattè anch’esso valorosamente il nazifascismo in Piemonte e non solo: pensiero nobile il suo, come nobili sono le figure dallo stesso citate, ma va da sè che la copertina di un libro descrittivo la Nazione piemontese, dovrebbe rappresentare un sunto grafico di secoli di storia, perchè così era in passato: circa duemila anni di storia, dei quali i primi mille in balia di tribù liguri e celtiche poi sconfitte dai romani, ed i secondi ,se non mille, novecento tutti, governati da una casata d’oltralpe che prendeva il nome del territorio natio, la Savoia.

Barbero aggiunge che le figure di questi due partigiani, onorevolissime intendiamoci, sono più rappresentative di un certo Vittorio Emanuele II in Piemonte, ma nello stesso tempo che questa terra, senza una grande capitale come Torino ed una dinastia così aggressiva come quella subalpina, nel dichiarare guerre espansionistiche atte ad allargare i suoi domini, sarebbe rimasta una piccola parte territoriale della Lombardia.

Egregio ed illustre professore, ho capito e letto bene?

Capitale Torino, la prima d’Italia, Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia unita, Il Piemonte dei Savoia nel quale le parole mafia,camorra, 'ndrangheta,Sacra Corona Unita ecc.non esistevano su nessun vocabolario (la prego di citarmene almeno uno che descriva tali sinonimi, stampato in Piemonte), tranne la parola Cocca, che distingueva le bande criminali torinesi a partire dalla prima metà del 1800 e di importazione sarda (la cocca era un pane distribuito ai poveri nei conventi dell’isola accanto ad una moneta per il companatico), importata a Torino da gente sarda che sperava di trovare fortuna nella loro capitale.

Il piemontese quindi è stato  per secoli un ottimo soldato, un magnifico lavoratore ed un ottimo suddito, cultore del lavoro, preciso ed efficiente al punto di contribuire a far sì che la Nazione piemontese, quella vera non quella napoleonica ove si batteva moneta con i simboli rivoluzionari, perchè noi tutto siamo, men che pazzi esaltati rivoltosi, fosse in grado di sostenere tutti gli attacchi ed invasioni subite da paesi come la Francia del Re Sole o come la Spagna di Carlo V, passando poi dall’Austria di Cecco Beppe: Lei pensa che senza i piemontesi, oggi, potrebbe dirsi Italiano? E si guardi bene di tirare in ballo il Risorgimento caro professor Barbero, perchè esso è il frutto di ingenuità politica ed esaltazione ideologica di un certo Garibaldi, se ben ricordo dittatore della città di Napoli, antica capitale borbonica, che raccolti mille sbandati, quasi nessun piemontese perchè essi servivano sotto il Regio Esercito Sardo come si conviene a veri soldati, e con soldi avuti dalla massoneria inglese, prima si alleò con la baronia mafiosa siciliana per conquistare l’isola, poi visto che ormai era lì, passò in Calabria ed occupò Napoli, arrivando in carrozza, mica alla testa delle truppe garibaldine, perchè in precedenza accordatosi sottobanco con esponenti della camorra locale, quindi non avendo nulla da perdere, neppure lo stipendio che lui stesso ripudiava, non riuscendo neppure come dittatore a ristabilire l’ordine,consegnò a Teano presso taverna Catena, questo po’ po’ di casino ad un certo Vittorio Emanuele II accorso con le truppe per fermarlo e che certamente l’avrebbe voluto fucilare, invece dovette abbracciarlo per il piacere dei cronisti presenti.

Presa visione dei luoghi,che non erano certo nè la Valsavaranche, nè Torino ,il Re Galantuomo disse in dialetto piemontese ”Se savia c’ha l’era parei, stasiu a ca’ nosta”. Con buona pace di tutti i cultori del mito unitario.

Lei sa benissimo professore, che sia la Corona Sarda che il suo primo Ministro Cavour, non avevano nessuna intenzione di occupare il meridione d’Italia, men che meno dichiarare una guerra che tutti sapevano essere fratricida: infatti mai nessuna guerra è stata dichiarata ai Borboni di Francesco II.

Per quanto riguarda gli scrittori che lei evoca nel suo articolo dedicato al Piemonte cita Cesare Pavese, Giovanni Arpino, Beppe Fenoglio e Primo Levi, tutti o quasi, impegnati contro il nazifascismo, autorevolissime figure che rappresentano in modo meraviglioso e tragico i momenti vissuti dall’Italia nella guerra civile durata dal 8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, ma che nel contesto del discorso letterario del Piemonte sono una goccia che rappresenta uno specifico momento storico, mentre noi esistiamo, come ricorda lei, da duemila anni e quindi le assicuro che qualche piemontese sapeva leggere e scrivere anche prima della venuta di questi signori: il piemonte non è nato con questi autori benchè pregievolissimi, dunque, perchè non citare uno dei primi traduttori di Dante,Talice di Ricaldone?Dove ha lasciato Vittorio Alfieri con il suo “Misogallo”? E poi Giuseppe Baretti, Luigi Cibrario, Roberto e Massimo d’Azeglio, Antonino Bertolotti da Lombardore, con le sue “Passeggiate in Canavese”? Nino Costa, Pinin Pacot, Giuseppe Giacosa, Nino Oxilia, Guido Gozzano, fino ad arrivare a Mario Soldati e le metto pure Gipo Farassino va’, che mi diverte più di Marco Travaglio, piemontese anch’esso, noto lustrascarpe di Indro Montanelli, al quale venne presentato se ricordo bene proprio da Giovanni Arpino. ”Russ cume al sang, fort cume al barbera”.

La stimo e l’ammiro da molto tempo professor Barbero.  Lei rappresenta la piena capacità di raccontare la storia con sintesi ed analisi precise e mai banali, concreto nella brevità, chiaro ed attento, appassionato storico prima ancora di essere un ottimo narratore, ma la prego: almeno alla sua terra, alla sua gente, alla sua onestà intellettuale, quando è chiamato a raccontare il passato, inizi dal principio per favore e non dalla fine. Quando si racconta il  passato, non occorre presentare nessuna tessera politica, basta ed avanza una coscienza libera, la stessa che Lei ha usato nel redarre il libro di alcuni anni fa e che ha fatto arrabbiare molta gente del sud, ”I prigionieri dei Savoia": a proposito le ricordo che all’archivio di Stato di Torino ci sono molti faldoni in più di quelli che lei ha consultato per scrivere questo testo e spero abbia trovato il tempo di poterli consultare.

Si goda Trana e le meritate ferie.      

Credits: www.wikipedia.org 

 

 

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