Gio, 21 Nov, 2024

La criminalità torinese di metà '800. La condanna a morte della banda Cibolla

La criminalità torinese di metà '800. La condanna a morte della banda Cibolla

E lo storico processo seguito per la prima volta da un giornalista

In una fredda mattina del 1862 in Torino presso il famoso “Rondo’ d’la furca” come da sempre viene chiamato Largo Valdocco ove si erge la statua di Don Cafasso, il prete degli impiccati, Pietro Pantoni, l’ormai sessantenne “esecutore di giustizia” del Regno di Sardegna e poi d’Italia,nella capitale subalpina,effettuò l’ultima sua operazione al serivio della giustizia.

Furono ben sette gli impiccati e se li moltiplichiamo per le 3 lire e sessanta che ognuno di loro valeva come pagamento  del Regio Fisco al boia ,era certamente per l’epoca una discreta cifra,visto che il mestiere più odiato al mondo non era poi così economicamente vantaggioso ed i boia nel corso degli anni avevavo perso molti diritti,come quando andando per mercati cittadini  potevano prendere gratuitamente dalle bancarelle tanta merce quanto ne potesse contenere la loro mano, inoltre da un paio di anni la Savoia era passata alla Francia, e lì, purtroppo l’esecutore di giustizia subalpino ed il suo assistente ,"al Tirapè ”, avevano perso un mucchio di lavoro in quanto al di là dei monti si impiccava spesso e volentieri.

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Questa banda di criminali, comandata da tal Vincenzo Cibolla, era stata colta in flagrante durante un tentativo di furto accompagnato da un duplice assassinio in una casa che costeggiava la strada di Cavoretto, all’epoca poco più di un vicolo che correva verso la strada dei Ronchi in direzione di Moncalieri.

A farne le spese due macellai della zona, Beltramo e Maina che furono in modo atroce giustiziati dai balordi per far loro confessare ove tenevano i denari.

Forse grazie ad una soffiata arrivata da una banda rivale o da qualche componente la stessa,la polizia arrivò sul posto quando gli uomini del Cibolla erano ancora intenti a depredare le vittime e dopo un conflitto a fuoco, tutti furono arrestati e portati nelle patrie galere.

Ne seguì un processo molto famoso all’epoca, e ne fu ampliato l’eco anche dalla stampa, per la spavalderia e baldanza degli imputati che pur sapendo di rischare la forca, mantennero un atteggiamento sprezzante verso i giudici ed al folto pubblico che seguiva le fasi del processo.

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Al termine di questo, furono ben sette le condanne a morte inflitte ad appartenenti alla banda Cibolla, ma stranamente quest’ultimo, pur essendo il capo,si salvò dal cappio, ma per lui si aprì il carcere a vita.

Dal  triste corteo dei condannati, che tradizionalmente passava per le solite vie di Torino, partendo dalle carceri senatorie, accompagnati dal suono  mesto delle campane del circondario, giunti sul luogo del supplizzio, ad un certo punto si alzò un ritornello che tutti i condannati a morte intonarono in segno di sfida e disprezzo per l’amara loro sorte,mista a quell’orgoglio banditesco che fino alla fine sfoggiarono dinanzi al patibolo, impressionando le migliaia di persone che erano accorse per assistere a quel macabro spettacolo :

«Nùi sùma cùi dla Cocca, la Cocca dèl Balùn, se quaicadùn a cioca, ij duma sudisfassiùn».

Le cronache del tempo narrano che ad assistere a questa esecuzione capitale in Torino fu presente per la prima volta un giornalista, un corrispondente del giornale “L’Opinione” che descrisse per i lettori, tutti i particolari di quei terribili istanti.

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Ma perchè i condannati dichiararono di appartenere alla Cocca?

E poi cosa era mai questa strana definizione di banda criminale verso la quale gli adepti dimostrarono un orgoglioso attaccamento fino alla fine? Da dove proveniva e da dove nasceva questa parola semplice e curiosa, strana e nello stesso tempo paurosa?

Alcuni storici riferiscono di associazioni a delinquere presenti verso la metà del 1800 nei bassifondi della capitale subalpina, che per dimostrare la loro organizzazione e quindi pericolosità si definirono Cocche .Ma questo non è un termine piemontese.

Tale nome era in uso in Sardegna nei secoli scorsi, per indicare una pagnotta di farina  bianca, grande e schiacciata che ogni Giovedì Santo i Priori della Madonna del Monserrato o di Santa Croce, offrivano ai confratelli, assieme ad una manciata di soldi per provvedere al companatico. Nel comune di Ittiri, in particolare, questa usanza è provata da molte testimonianze. E’ facile desumere quindi che con l’arrivo in Piemonte di Re Vittorio Emanuele I, dopo diversi anni passati in Sardegna in esilio a causa dell’occupazione francese, nel periodo detto della Restaurazione, alcune bande criminali sarde lasciarono l’isola per raggiungere la capitale del Regno di Sardegna ed allacciare rapporti criminosi con delinquenti locali, dando quindi i natali ad una nuova forma di associazionismo banditesco chiamato appunto Cocca.

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Le Cocche più famose a Torino furono sostanzialmente tre.

Oltre alla gia’ citata banda del Balùn che operava tra le Porte Palatine e l’odierna Porta Palazzo, che già all’epoca vantava il mercato detto “degli Stracci” più grande della Capitale, guidata da un sanguinario personaggio di nome Luigi Gervasio, anche lui impiccato da Pietro Pantoni, erano presenti la Cocca del “Muschin”che costeggiava la riva del Po adiacente all’odierno corso San Maurizio,forse il luogo più malfamato della città ove prostituzione e delinquenza erano le attività più presenti e rilevanti, tanto che la polizia non osava entrare di notte, in particolare nella via centrale ribattezzata dagli stessi abitanti “la cuntrà dle pùles”, dove sporcizia e degrado erano evidenziati quasi con orgoglio dalla gentaglia che qui aveva le basi per le loro illecite attività. Non di rado in queste contrade scoppiavano epidemie di colera accompagnate da malaria a causa degli insetti che inondavano la zona e la rendevano quindi rischiosa anche dal punto di vista sanitario. Malgrado lo svilupparsi di gravi epidemie era quasi impossibile curare i residenti perchè i cerusici si rifiutavano di entrare in questi quartieri.

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Esisteva poi la Cocca del “Gamber”, anche questa ben circoscritta come le altre due,operante nella zona di via Bertola, dove ladri, sfruttatori ed assassini trovavano rifugio. Forse la contrada storica della delinquenza torinese, se pensiamo che secoli addietro, di sera, veniva tirata una grossa catena al limitare della zona, come a dividere la parte sana della città rispetto a quella gravemente ammalata che veniva così isolata.

Che tale parola non sia di origine piemontese, lo dimostra anche il fatto che nella seconda edizione del vocabolario di tale lingua (non si parla quindi di dialetto) a cura di Casimiro Zalli, edito a Carmagnola nel 1830, la parola Cocca non è citata in alcun modo.

Storie, personaggi, luoghi ed azioni che riaffiorano dalle nebbie del passato, proponendo l’eterna lotta tra il bene ed il male.Torino è stata anche questo.

Foto: mepiemunt.it

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